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Supplica di luglio
Srebrenica: c’ero anch’io?
Avevo circa dieci anni, ed era una domenica di primavera.
Non ricordo per quale motivo io mi trovassi sola a casa, forse un’influenza da cambio stagione. Decisi di apparecchiare la tavola e accesi la tv per farmi compagnia. C’era il Tg. Era il 1991 e stava per scoppiare la guerra in Jugoslavia.
Resoconti politici, analisi sociologiche, previsioni catastrofiche, diplomazie fallimentari. Avevo dieci anni, ma intuivo che qualcosa di molto grave stava per accadere, qualcosa di grave e di molto vicino a noi. Durante il servizio del Tg, proprio mentre il cronista (pre) annunciava la violenza e le atrocità che quella guerra avrebbe portato con sé, si susseguivano sullo schermo le immagini di una città bosniaca. Erano immagini girate in tempo reale. Si vedevano le auto circolare, una discreta folla per strada. In mezzo a quella folla il mio sguardo scelse di seguire una gionave donna, ripresa da dietro. Aveva i capelli castani raccolti in una coda di cavallo, un dolcevita verde e una gonna marrone, stretta, lunga fino al ginocchio, nelle mani le buste della spesa.
Mentre l’osservavo camminare (tutto avvenne in una manciata di secondi), la voce del gionalista divenne un sottofondo indistinto ed io sentì il panico diffondersi lentamente nel mio corpo, dal basso verso l’alto fino ad esplodere all’altezza del cuore. Mi chiedevo come potessero essere tutti lì per strada nonostante l’imminenza della guerra, mi chiedevo perché non stessero scappando tutti. Mi chiedevo, soprattutto, perché noi italiani, così vicini a quella terra, non stessimo facendo nulla per andare a salvare la ragazza con le buste della spesa.
I miei rientrarono e mi trovarono con un piatto in mano, immobile, con il viso affogato nelle lacrime. “Cosa è successo?” – mi chiesero – “Sta scoppiando la guerra” – dissi io, balbettando. Si premurarono di dirmi che era tutto a posto, che non sarebbe successo nulla. Avevo dieci anni, volevano ad ogni costo che non mi angosciassi per la guerra, lo capisco. Ma non poterono in alcun modo mettermi in salvo da quello che accadde dopo, dal resoconto di violenze che i Tg ogni giorno raccontavano, accennandole soltanto, ma lasciando intravedere tutto l’orrore. Mi chiedevo, ogni giorno, cosa fosse accaduto alla ragazza.
Di tutto questo avevo perso memoria, l’anniversario della strage di Srebrenica, mi ha fatto riaffiorare ogni cosa. Sono passati vent’anni. E oggi, che non sono più una bambina, mi rendo conto quanto sia illusorio credere o sperare che gli avvenimenti del mondo non ci riguardino sempre e da vicino. Certo, non ho subito violenze, non mi è mancato il pane, non ho perso casa, non ho visto attorno a me brandelli di uomini dilaniati. Ma quella guerra e quel dolore hanno comunque condizionato la mia vita. Le guerre, la violenza, segnano il corpo del mondo di cui tutti siamo membra, in un modo o nell’altro. E anche le omissioni, il soccorso non dato, la codardia degli Stati, la tirannia del potere economico, l’interesse di pochi a scapito di molte vite umane, non illudiamoci, scavano in noi lunghi solchi di sangue con cui faremo prima o poi i conti, proprio nel dispiegarsi del nostro quotidiano, apparentemente lontano e indipendente da quelle vicende.
Ieri la Jugoslavia, oggi la Siria, in mezzo infiniti conflitti dimenticati. La storia ci implora: imparate ad essere umani!
O a Palermo o all’inferno!
Incredibile e vero. E’ passato già un anno dalla pubblicazione su Eufemia di “O a Palermo o all’inferno”. E’ bello ricordarlo non solo per la gioia delle 7000 visualizzazioni in meno di 48 ore da ogni parte del mondo o per le infinite condivisioni sui social, cose che fanno molto piacere, ovviamente, ma sopratutto per la rete di relazioni che da questo post hanno preso vita. Ho ricevuto centinaia di messaggi privati, tanti commenti da parte di chi si è sentito coinvolto nel racconto, segno che per la mia generazione, travolta e sconvolta dalle vicende del mondo, la ricerca dell’identità, la necessità di fuggire, lo struggimento della nostalgia per un futuro negato, la voglia di tornare, il desiderio di crescere e vivere e fare, la rabbia e la resa sono aspetti che ci accomunano, pur nella singolarità di ogni storia. Nessuna certezza che tornare a Palermo sia stata la scelta giusta e la valigia è ancora a portata di mano, non si sa mai… Ma Palermo mi chiamava, ed ho risposto.
Uomini di frontiera
Il vocabolario etimologico dice che la FRONTIERA è il territorio di confine di uno Stato che sta DI FRONTE a quello di un altro Stato. Stare “di fronte” vuol dire guardarsi, è l’esatto contrario di “dare le spalle”.
Oggi, giornata mondiale per i rifugiati, provo a riflettere sulla parola “frontiera”, a capire perché il tempo che stiamo vivendo è un tempo inabile alla “frontalità”.
Siamo capaci di “affrontare” cioè assalire il nemico (spesso quello sbagliato), ma non di restare “di fronte”. Chiudere le frontiere è un paradosso. E’ porre tra i due elementi che stanno fronte a fronte, un ostacolo, una barriera. E’ impedire lo sguardo reciproco, è evitare la conoscenza. E’ prendere la decisione di mostrare di sé, all’altro, le spalle, non la fronte, appunto. Niente occhi, nessun volto, nessuna comunicazione, nessuno scambio.
Le ragioni di questo rinnegamento sono diverse, complesse. Le radici affondano la loro presa nelle profondità velenose di guerre antiche, di violenze inferte ad interi popoli, di sfruttamento di risorse non nostre; anche allora incapaci di restare “di fronte”, abbiamo messo i piedi sulle loro terre, calpestato i loro corpi, coperto gli occhi di chi non poteva difendersi dal saccheggio. Abbiamo aggredito alle spalle. Oggi, travolti dalle conseguenze della nostra devastazione, innalziamo muri, disponiamo armi, seminiamo di morti il mare.
Ma nessuna consapevolezza storica muterà il presente e nessun senso di colpa ci renderà abili a sostenere i loro sguardi. Solo l’esperienza d’esser “mancanti”, noi più di loro, di qualcosa, di qualcuno. Ci accorgeremo, un giorno, di essere rimasti soli, senza nessuno “di fronte”. Se solo fossimo capaci di guardare i volti di chi cerca un rifugio, se solo fossimo in grado di sostenere i loro racconti, di familiarizzare con gli occhi, di condividere il pane! Non più massa informe che destabilizza, ma lineamenti precisi, riconoscibili, familiari. Fossimo capaci di spartire il peso dell’esperienza, la loro fuga diventerebbe la nostra, le nostre vite il loro primo rifugio.
Non ci rendiamo conto di cosa vorrà dire crescere i nostri figli nell’assenza irrimediabile di 100.000 siriani, spazzati via da una guerra infame (solo uno dei tragici esempi possibili), in un mondo barricato e spaventato che s’illude d’essere autonomo, forte, civile. Viviamo come prigionieri in preda al delirio. Se non troviamo il modo di recuperare il senso e il ruolo delle nostre frontiere, la capacità propria dell’essere uomano di stare uno di fronte all’altro, di tendere le mani, di posare lo sguardo su qualcuno e di poterci riconoscere esistenti, vivi, proprio grazie agli occhi di chi sta di fronte e ci guarda, saremo noi quelli che non troveranno né rifugio né salvezza.
Giugno
La testa che gira, l’amor che stordisce
la vita che avanza, eppure sparisce!
La notte silente affina gli artigli
la morte vogliosa che schiude i sigilli.
Ferite di sangue e lividi neri
cicatrici profonde dentro ai pensieri.
I piedi nel fango a passo di danza
negli occhi un bagliore ad intermittenza.
Il ventre ruggisce, di pietra, difende
il corpo che stanco pian piano s’arrende:
“Reagisci, ti prego!” – urla il ventre sventrato
al cuor dall’amore abbandonato.
“Ti han divorato il naso e la bocca?
Il buio profondo con le mani ti tocca?
Resisti piangendo le lacrime vere
vegliando la vita, di sera in sere!
E’ lento il risveglio, l’amor sembra muto,
ma il mostro vedrai sconfitto, abbattuto!
Dov’è la tua forza, gigante violento?
Le tue mani sacre d’abbrutimento?
La vita non tornerà da un paese lontano,
nessuno potrà offrirtela dalla sua mano.
La vita dall’intimo del tuo tormento
farà biondeggiare di luce il frumento.
Il corpo riavrà il profumo del pane,
risuscitate le labbra, morbide, sane.
Nei vostri baci nuovi affonderà la morte
dallo sfiorarsi di mani, la nuova sorte.
La scuola è (s)finita?
La cosa che confonde è che l’ultimo giorno finisce come tutti gli altri, come il primo, come quelli di mezzo: suona la campanella e stop. Non è una campanella speciale, non ha un suono diverso, una durata estesa, no. Niente che aiuti a pensare scendendo le scale: “Ehi, ma è finita la scuola? E che cosa vuol dire per me?”. Beh, certo il caldo aiuta a capire che si è alla fine, così come i pantaloncini dei ragazzi e le magliette strette strette, senza spalline, delle ragazze. Ma percepire qualcosa non ha nulla a che vedere con il ritrovarsela davanti, reale e compiuta, senza appello.
Mi viene da pensare che, probabilmente, per i colleghi di ruolo questo benedetto suono della campanella rappresenti più che altro un tassello della propria esperienza lavorativa; per noi precari, invece, è come un’apocalisse, una sensazione a metà fra liberazione e devastazione. Così alunni e insegnanti, incontrando nel corridoio il docente precario, chiedono sorridendo: “Ci sarai l’anno prossimo?”. E il docente precario risponde: “Mah, speriamo…non dipende da me”, abbozzando un sorriso cordiale, anche se, intanto, avrà fissa in mente la pagina online dei suoi “saldi e movimenti”, dalla quale vedrà scalare inesorabile lo stipendio ricevuto durante l’anno, senza avere idea di cosa ne sarà della sua vita e della propria pseudoindipendenza economica. Pensiero che getterà un’ombra costante sul sol leone dell’estate.
Non parliamo poi dell’insegnante “precario di Religione” (che sarei io), che vede lottare animatamente i colleghi delle altre materie invidiandone la brezza del dissenso, totalmente inutile, invece, nella sua condizione di “prescelto” dalle curie diocesane, per le quali il dissenso è spesso una categoria non pervenuta, qualunque forma esso possa assumere.
Ma oltre che con il futuro dalle fauci spalancate, l’ultima campanella fa fare i conti con il vissuto, appena divenuto passato. Non so quale sia statisticamente la riflessione più riccorrente, posso solo parlare per me ed ammettere di aver pensato: “E’ finita? Ma come diamine ho fatto?”. La sorpresa è di riscoprirmi sopravvissuta! Non del tutto messa fuori gioco dai più di duecento alunni che di settimana in settimana son passati davanti ai miei occhi. Il fatto è che non son passati soltanto sotto gli occhi, ma anche attraverso gli occhi, in mezzo alle viscere, dentro ai pensieri. Perché il maledetissimo o benedetissimo (ancora non l’ho capito) punto di questo mestiere sta proprio qui: sta nel fatto di avere a che fare con gente viva e, come se non bastasse, di esserne in qualche modo responsabile, di essere lì proprio per loro, a loro favore. E il paradosso è che per vivere questa consapevolezza attivamente ci si deve proprio lottar contro prima di riuscire a lottare al loro fianco. Lottare per farsi accettare, per far accadere il miracolo del “vedersi” reciproco, del riconoscersi alleati e non nemici.
Ci son giorni, infatti, che è proprio una guerra di sopravvivenza. Giorni in cui la fatica sembra, e lo è, al di sopra delle forze. Come quando si entra in classe e viene il sospetto di essere invisibili: ognuno continua a fare quanto stava facendo (cioè confusione) e nulla cambia fino a quando in un impeto di disperazione le corde vocali impongono il silenzio. Oppure, come quando non si possiede, per le leggi che attanagliano l’insegnamento della Religione, una valutazione da dare che rientri nell’orizzonte del loro linguaggio, un voto che sia strumento di dialogo, insomma. “Ma Religione fa media? Ma si può essere rimandati in Religione?”, cercando ogni santo giorno di costruire lezioni capaci di rendersi gratuitamente interessanti. Quando poi ci si deve liberare dalla zavorra delle esperienze pregresse è davvero un’angoscia: “Ma io alle scuole medie non facevo niente! Ma io il compito di Religione non l’ho fatto mai”, etc etc… L’apice dello sfinimento si raggiunge dopo essere riuscita, in qualche modo, a insegnare delle cose, o, meglio ancora, a fornire degli strumenti perché possano guardare al fenomeno religioso attraverso una lente differente, e poi, però, sentirsi raccontare che il parroco pretende per la celebrazione del 25° anniversario del matrimonio dei genitori, la confessione sacramentale dei figli! Allora, prendendo fiato, si prova a trovare una risposta sensata (che non c’è) per non venir fuori con un deciso e genuino: “Ma che cazzo!”. Già.
Quando ero studentessa io mica pensavo che una prof.ssa potesse alzarsi al mattino e, prima di andare a scuola, sedersi ai piedi del letto sussurrando: “Non ci voglio andare, non ci voglio andare, non ci voglio andare!”. Invece, si. Succede. E ora, a scuola finita, se dovessi chiedermi dove ho trovato la forza di alzarmi e andare…direi che… non l’ho trovata. Perché, secondo me, non si va avanti con la forza, ma nella speranza, quella di trovare il senso delle cose facendole accettando che riescano, anche se diversamente da come le si erano programmate. Perché nelle programmazioni che ad inizio anno si presentano in segreteria non si può certo prevedere che G. il quale non ti ha cagato per metà anno, all’improvviso, dopo una lezione sulla difficoltà delle relazioni (venuta chissà come e da dove!), incontrandoti in corridoio si apra ad un sorriso che è tutto per te! E no, non si può prevedere. E neppure che la classe che il mercoledì dalle 14.15 alle 15.15 ti ha purificato da tutti i peccati passati, presenti e futuri, resti in assoluto silenzio mentre racconti di te a 12 anni che vivi la morte di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e don Pino Puglisi come se avessero abbattuto all’improvviso e per sempre le fondamenta del tuo tranquillo mondo di pre-adolescente.
Quando ascoltano in silenzio è una cosa da brivido. Tutti i loro occhi sono per te e le labbra socchiuse un po’ per la meraviglia, un po’ per le parole che ancora non riescono a trovare pur volendole dire, fan tremare le gambe. Sarà strano adesso, a scuola finita, rimodulare la fatica e la stanchezza, la paura e lo stupore, non doversi più sedere ai piedi del letto a cercare affannosamente la speranza.
Questo non è il lavoro che vorrei fare. Ma è quello che mi trovo a fare, è la vita che non mi aspettavo e che ad ogni incarico mi piomba addosso senza sapere se ringraziare Dio o chiedergli a quale gioco sta giocando. Eppure i ragazzi sono vivi, ed io, viva tra i vivi, non ho potuto che sfinirmi in questa ricerca affannosa della speranza, di una strada, di una direzione che valga la pena percorrere prima e proporre, poi. Sbagliando, di certo, infinite cose ed infinite volte e accettando a denti molto stretti che questa cosa dello sbagliare sia proprio parte integrante della vita.
Di cose pesanti e difficili ne ho raccolte molte, mi servirà l’estate intera per svuotarne lo zaino, diciamo così. Per le cose belle mi bastano le tasche dei jeans, piccole, ma strette, in modo che nulla si perda: il suono di una risata, imparata a memoria, come si fa con la canzone preferita, un bacio appiccicato sulla guancia in una mattina d’inverno, l’aver contribuito alla pronunzia di un sonoro “no”, detto con consapevolezza e quelle righe scritte di fretta su un foglietto messo di nascosto in mano: “Prof. certo che sto Gesù, era un gran figo”.
Quel che resta
Immagini della guerra in Siria, fin dal suo inizio, ne sono arrivate moltissime. Alcune di queste sono introdotte dalla scritta: “ATTENZIONE, le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità”. Mi fa sorridere questo avviso, poiché da per scontato il fatto di rivolgersi ad un pubblico provvisto di sensibilità. E’ un avviso ottimista, in fondo.
Le esecuzioni dell’Isis, le teste mozzate, i corpi sventrati dalle bombe, i bambini morti tutti in fila, uccisi dalle armi chimiche del dittatore. Sangue e distruzione ovunque, in un crescendo che pare non aver fine. Un groviglio politico, culturale, religioso ed economico di cui nessuno sembra voler tirare, veramente le fila. Il regime bombarda gli ospedali, le scuole, i mercati. Lì dove la gente si riunisce, ancora, nell’eroica ricerca di normalità, piomba impietosa la morte violenta, la polvere, il sibilo delle bombe. Macerie su macerie a formare cumuli di nulla: pure la disperazione si frantuma e si deposita ai bordi delle strade simile a materiale di scarto.
Da questo nulla che tutti ci interpella e verso il quale siamo responsabili, oggi è venuto fuori il corpo in vita di un neonato. Come dall’utero della madre, il piccolo, vivo di nuovo, è uscito dal buio e dal fuoco, incredibilmente indenne. Sono rimasta a guardare questa foto per alcuni lunghissimi minuti, cercando di capire cosa turbasse, pur in assenza di sangue e corpi in brandelli, la mia sensibilità. Forse l’espressione di quell’uomo che tiene in braccio il piccolo come la cosa più preziosa che le sue mani possano contenere? Forse lo sguardo smarrito di chi si guarda intorno senza trovare un luogo sicuro nel quale custodire la vita? Forse il fatto che il bambino dorma, del tutto ignaro di esser nato all’inferno? O forse il dubbio che il bambino possa riuscire a diventare adulto, a vivere quella vita che uomini potenti e popoli pavidi gli stanno portando via?
Se questa foto rappresenta ciò che resta della Siria, allora vale ancora la pena sperare per la libertà di un popolo sacrificato sull’altare di questo mondo meschino. Io cambierei l’avviso e scriverei così: “ATTENZIONE! Speriamo che le immagini che seguono possano davvero turbare la vostra sensibilità e muovere i vostri cuori all’azione, la vita intera alla compassione”.
“La presunzione di essere niente” (Resoconto del quasi viaggio di un sasso di fiume verso il mare)
Il mare. Mare a perdita d’occhio. Si smarriscono, gli occhi: cercano punti di riferimento che le nuvole nascondono, che il vento confonde, che il sole sbiadisce. Il tempo inverte la rotta e lo spazio inghiotte il suo limite.
Il mare gonfio di vento s’infrange sulle pietre, ora, di nuovo, ancora. Si rincorrono le onde, senza toccarsi mai, non si raggiungono, ma non si arrendono: ora, di nuovo, ancora. Su ciottoli levigati dalla tenacia di una rincorsa vana, ragazzini giocano ad acchiappar l’amore: una foto, un sorriso, le confidenze sussurrate ad ogni ritirarsi d’onda.
Il silenzio s’impone ovunque. Lassù, dove emerge dalla terra la punta d’acciaio corten, ogni voce è catturata. Sulla strada che conduce all’altura il mare s’ingrandisce ad ogni curva, su, su, tra le ginestre d’oro, fino al 38° parallelo.
In piedi e a braccia allargate la croce di carne sfiora con le dita il sorgere del sole e il suo tramonto. Oriente e occidente s’incontrano dove lo sguardo dell’uomo contiene gli estremi. Non più dilaniati tra inconciliabili opposti, stiamo, muti, mentre tutto converge e abita lo spazio.
Né estremi a lacerare il mezzo né punti di mezzo a risucchiar futuro. La misura di ciascuno è la scoperta d’esser vivi. Ad occhi aperti: la luce non abbaglia, il buio non spaventa. La parola si fa lieve e torna comunione, vicinanza, identità. Ovunque lo sguardo trova riposo. Nessuna lama ne trafigge il cuore.
La vita forse si ricompone, adagio?