Fotosintesi: dal greco φώτο- [foto-], “luce”, e σύνθεσις [synthesis], “costruzione, assemblaggio”. Esiste una fotosintesi “umana”. L’ho scoperto ieri, durante una passeggiata post scuola al foro italico.
Che Palermo sia una città di eccessi in continua contraddizione, si sa. Lo sa chi la visita, da turista, per pochi giorni. I turisti lo capiscono con più chiarezza degli abitanti stanziali, perché l’essere di passaggio apre lo sguardo ad una sapienza intensa, si é tutti protesi a conoscere e capire nel minor tempo possibile e con la massima intensità.
Gli occhi di chi vive a Palermo si abituano fin dall’infanzia e reggere gli sbalzi repentini tra le tenebre e la luce. La luce negli occhi e il buio nel cuore.
Al foro italico la luce abbaglia. C’è il mare. C’è il vento. Ci sono gli aquiloni che tremano tesi e bimbi che sgambettano instabili su gambe vergini di passi. Ci sono gli innamorati sull’erba e i podisti di ogni età alla ricerca di muscoli e salute. Ci sono gli adolescenti che sui motorini truccati della Kalsa vengono a fumare all’aria aperta, sperando che la vita sia meno tossica in riva al mare. Ci sono le donne extracomunitarie con gli abiti colorati e uomini dalla pelle scura che vendono i flaconcini per le bolle di sapone.
A passare in mezzo alla gente, con lo sguardo fisso alle gru dei cantieri navali, si raccolgono parole, come una mietitura. E mentre un giovane che sembra Gesù, avvolto nel foulard della sua ragazza per proteggersi dal vento arpeggia un giro di Do, ogni frammento di conversazione sembra possedere un senso compiuto.
E’ un tacito scambio, un prendere, dare e trasformare. Come in una fotosintesi la luce innesca i processi, perché è la luce la più grande risorsa di questa città che sopravvive incredibilmente, di giorno in giorno, sotto il torchio costante di tenebre fitte fitte.
Così, le ultime parole ascoltate, come titoli di coda, pronunciate da un’adolescente dai capelli rossi, sembrano con precisione chirurgica andare a fondo nella ferita: “No, tu un c’ha cririri mai a chiddu ca ti diciunu l’autri. Tu, c’hai a esseri tu, cu l’occhi toi, tu”.
Quelle ultime parole sono laceranti!