Uomini di frontiera

Il vocabolario etimologico dice che la FRONTIERA è il territorio di confine di uno Stato che sta DI FRONTE a quello di un altro Stato. Stare “di fronte” vuol dire guardarsi, è l’esatto contrario di “dare le spalle”.

Oggi, giornata mondiale per i rifugiati, provo a riflettere sulla parola “frontiera”, a capire perché il tempo che stiamo vivendo è un tempo inabile alla “frontalità”.
Siamo capaci di “affrontare” cioè assalire il nemico (spesso quello sbagliato), ma non di restare “di fronte”. Chiudere le frontiere è un paradosso. E’ porre tra i due elementi che stanno fronte a fronte, un ostacolo, una barriera. E’ impedire lo sguardo reciproco, è evitare la conoscenza. E’ prendere la decisione di mostrare di sé, all’altro, le spalle, non la fronte, appunto. Niente occhi, nessun volto, nessuna comunicazione, nessuno scambio.

Le ragioni di questo rinnegamento sono diverse, complesse. Le radici affondano la loro presa nelle profondità velenose di guerre antiche, di violenze inferte ad interi popoli, di sfruttamento di risorse non nostre; anche allora incapaci di restare “di fronte”, abbiamo messo i piedi sulle loro terre, calpestato i loro corpi, coperto gli occhi di chi non poteva difendersi dal saccheggio. Abbiamo aggredito alle spalle. Oggi, travolti dalle conseguenze della nostra devastazione, innalziamo muri, disponiamo armi, seminiamo di morti il mare.

Ma nessuna consapevolezza storica muterà il presente e nessun senso di colpa ci renderà abili a sostenere i loro sguardi. Solo l’esperienza d’esser “mancanti”, noi più di loro, di qualcosa, di qualcuno. Ci accorgeremo, un giorno, di essere rimasti soli, senza nessuno “di fronte”. Se solo fossimo capaci di guardare i volti di chi cerca un rifugio, se solo fossimo in grado di sostenere i loro racconti, di familiarizzare con gli occhi, di condividere il pane! Non più massa informe che destabilizza, ma lineamenti precisi, riconoscibili, familiari. Fossimo capaci di spartire il peso dell’esperienza, la loro fuga diventerebbe la nostra, le nostre vite il loro primo rifugio.

Non ci rendiamo conto di cosa vorrà dire crescere i nostri figli nell’assenza irrimediabile di 100.000 siriani, spazzati via da una guerra infame (solo uno dei tragici esempi possibili), in un mondo barricato e spaventato che s’illude d’essere autonomo, forte, civile. Viviamo come prigionieri in preda al delirio. Se non troviamo il modo di recuperare il senso e il ruolo delle nostre frontiere, la capacità propria dell’essere uomano di stare uno di fronte all’altro, di tendere le mani, di posare lo sguardo su qualcuno e di poterci riconoscere esistenti, vivi, proprio grazie agli occhi di chi sta di fronte e ci guarda, saremo noi quelli che non troveranno né rifugio né salvezza.

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