Al povero stendi la tua mano, perché sia perfetta la tua benedizione. La tua generosità si estenda a ogni vivente e al morto non negare la tua grazia. Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto. Non indugiare a visitare un malato, perché per questo sarai amato. In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato (Siracide 7,32-36).
In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere!». E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo». La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione (Lc 7,11-17).
Al povero stendi la tua mano (Sir 7,32). Il verbo ἐκτείνω, scelto dall’autore di Siracide, è il verbo utilizzato per indicare il movimento della mano stesa, tesa a raggiungere chi sta di fronte. Il Siracide invita a non evitare il contatto, a non restare “dietro” coloro che piangono, ma a porsi di fronte per portare insieme il peso dell’afflizione. La prima preoccupazione non è quella di trovare una soluzione, ma quella di condividere una condizione, di accorciare il perimetro della solitudine attorno a chi soffre. Avere pietà vuol dire sconfiggere la pigrizia, il testo di Siracide usa proprio ὀκνέω, il verbo dell’indugio causato da preoccupazione o prudenza, dalla pigrizia e dal timore per se stessi, il rallentare del passo frenato dalla paura. A questo verbo si contrappone ἐπισκοπέω “fare visita”, usato nella Scrittura per indicare Dio che visita il suo popolo. É il farsi presente del Signore. Gli evangelisti lo pongono in bocca alla gente che segue Gesù e che vede e riconosce nel suo dire/agire la vicinanza di Dio: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo» (cfr. Lc 7,16). Gesù stesso al cap. 25 del vangelo secondo Matteo lo utilizza per coloro che visitano i carcerati e sfamano gli affamati senza neppure immaginare di stare facendo qualcosa per Dio: «Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (cfr. Mt 25, 37-40). La pietà, infatti, nasconde la presenza del Signore, la custodisce senza pretendere che venga svelata, essa si fonda in prima istanza sul riconoscimento dell’uomo nell’uomo, nel poter scorgere in chi sta di fronte “un altro come se stesso” (cfr. Calogero Peri, L’uomo è un altro come se stesso, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 2002).
Nel testo del vangelo Gesù non solo si ferma davanti al dolore, ma si fa raggiungere da esso. La donna, segnata da doppio lutto, piange nel figlio la perdita della concretezza dell’amore. I suoi due termini relazionali, il marito e il figlio le sono stati sottratti dalla morte e lei piange il vuoto irrimediabile dell’assenza. Tra il vuoto e la donna, però, ecco che si frappone la potenza insita nell’incontro, una potenza rigeneratrice che non sta soltanto nel fatto di ritrovarsi insieme nello stesso luogo quanto nel mettere in atto l’esserci per l’altro. Gesù καὶ ἰδὼν αὐτὴν “vedendo lei” – dice il testo – ὁ κύριος ἐσπλαγχνίσθη ἐπ’ αὐτῇ (cfr. Lc 7,13). La vista dell’altro provoca in Gesù qualcosa, un movimento delle viscere. Il pianto della donna arriva al, meglio, nel corpo di Gesù. Non è una commozione del cuore o una presa di coscienza razionale della difficoltà dell’altro. Questi elementi devono pure esserci, ma ciò che spinge all’azione è il corpo nel quale l’altro si fa presenza. E il corpo non dimentica. Rielabora, risignifica, ma non dimentica. Il movimento delle viscere, sottolinea l’evangelista, è “su di lei”, quasi ad indicare plasticamente un piegarsi di Gesù sul dolore della donna: “non piangere”, le dice.
Il brano continua raccontando di Gesù che “tocca” la bara del figlio. Nei vangeli Gesù stende la mano per toccare e guarire, per afferrare, per raggiungere, per creare contatto. Gesù, durante gli anni della sua predicazione, tocca continuamente e chiunque, soprattutto gli intoccabili secondo la società ebraica del tempo (lebbrosi, prostitute, peccatori), lo fa con la mano tesa, sopratutto, ma anche con la bocca, perfino con la saliva (cfr. Mc 7, 31-37) oltre che con lo sguardo. Tocca e si fa toccare. In questo brano Gesù tocca la bara del figlio della donna e gli parla, e il ragazzo si solleva e comincia a parlare a sua volta. È importante questo particolare: la parola è la forma principale della comunicazione e, dunque, della relazione. Gesù restituisce alla madre il figlio vivo e parlante. Dona lui a lei, viene ristabilita la potenzialità dell’avere qualcuno “di fronte”.
La pietà, allora, si configura come movimento delle viscere che ci fa capaci di vedere l’altro e, soprattutto, di vederci nell’altro, di scoprire in chi ci sta di fronte qualcosa che ci appartiene, come realtà in atto o come intuizione e possibilità. Ma può accadere che la pietà non nasca spontaneamente, anche in questo senso si può scorgere la sua esigenza di reciprocità. Non è soltanto la capacità di “accorgersi”, la pietà sta anche nel bisogno che diventa invocazione, grido, nel desiderio quasi disperato d’esser visti, nella solitudine divenuta oramai insopportabile che si trasforma in consapevole richiesta d’aiuto: “Guardami Signore, volgi i tuoi occhi verso di me, accorgiti che esisto, renditi conto della situazione in cui mi trovo e agisci! Fa qualcosa per me”, sembrano dire i salmi: Pietà di me, Signore: vengo meno;risanami, Signore: tremano le mie ossa (Sal 6,3); Abbi pietà di me, Signore, vedi la mia miseria, opera dei miei nemici, tu che mi strappi dalle soglie della morte (Sal 9,14); Volgiti a me e abbi misericordia, perché sono solo ed infelice (Sal 24,16); Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. (Sal 26,7). Chiedere pietà è domanda di una presenza attiva, quasi un richiamare l’altro alla propria identità di custode (cfr. Gn 4,9), è una dilatazione dell’essere che diventa senza dis-perdersi: “esserci per”. È la verbalizzazione di una speranza, l’esigenza gridata di un bisogno.
Ciò che sconvolge nei conflitti di cui siamo oggi spettatori più che testimoni è proprio l’assenza di pietà, la negazione del riconoscimento reciproco, sostituito dalla ferocia, dalla perversione delle fedi, dalla putrefazione delle ideologie. Forse uno dei mille motivi per cui questo avviene risiede nel fatto che per poter riconoscere se stessi negli altri bisogna prima avere occhi capaci di posarsi con pietà su se stessi. Avere pietà di se stessi è la capacità di guardare con speranza alle personali zone d’ombra, è toccare la propria piaga, è rendersi conto, è decidersi per la cura, sempre. Anche davanti allo sgomento provocato dalla consapevolezza di aver mancato il bersaglio della nostra vita. Può succedere, e bisogna imparare a fare i conti con tutte le gradazioni del fallimento e del dolore, così come del successo e della gioia.
Mi pare importante, infine, fare una distinzione tra il termine “conflitto” e il termine “guerra”. Il conflitto è l’urtare di una cosa con un’altra, l’inevitabile scontro fra ciò che fuori e dentro di noi si trova in contrapposizione e ha come fine intrinseco ed esito finale lo stabilirsi di nuovi equilibri; la guerra, invece, possiede come fine intrinseco la vittoria, la supremazia da raggiungere attraverso l’eliminazione dell’altro, a qualsiasi prezzo. La guerra è l’opposto della pietà. La pace, allora, può essere forse costruita attraverso l’esercizio della pietà come grido che avviene in noi stessi e che ci rende abili a percepire e intendere il grido dell’altro. La pietà è rimedio alla paura provata nei confronti di ciò che siamo, di ciò che abbiamo fatto o anche nei confronti di ciò che c’hanno fatto e che muta il nostro sguardo trasformando l’altro in nemico, in colui che ha potere d’aggiungere dolore a dolore. In una delle pagine più belle scritte da Paolo Dall’Oglio (http://www.popoli.info/EasyNe2/Idee/Abbattere_i_muri.aspx), egli utilizza parole schiette e dure, ma molto vere e drammaticamente attuali: «È ora d’inoltrarsi in spazi di empatia inesplorati. Opposti fondamentalismi ci costringono ad abbattere il muro d’odio: etnico, nazionale, dogmatico, misogino, omofobico, schifato delle povertà indecenti, odio di se stessi in nome della natura, della norma, dell’ordine sacro e maschio». La pietà, invece, ristabilisce l’equilibrio, ricuce lo strappo relazionale e restituisce ciascuno di noi, vivo e parlante, nelle mani del fratello.
Grazie. Ho letto con profondo piacere la tua riflessione ed anche la riflessione del Gesuita illuminato. Grazie infinite 😘