L’etimologia della parola niente è incerta, dicono i vocabolari. Perfino le sue origini lasciano un senso di vuoto, una certa instabilità. Niente, probabilmente dal latino ne inde, nec entem, con molta probabilità nec gentem. La parola niente è per lo più utilizzata in contesti di negazione e sofferenza: “Non vali niente“, “Non mi importa niente“, “Non sei niente“. Chi è capace di venir fuori indenne da costrutti grammaticali così?
Non è solo negazione dell’esistenza è anche negazione di ogni originalità, di ogni compassione: “Per te (lui, lei, l’altro!) non provo niente“. E si, come quando da bambini si cade e mamma e papà, per non scoraggiare i primi passi, esclamano: “Dai, su, non ti sei fatto niente!”. E ci si convince, benevolmente e tenacemente che sia vero così, nonostante i graffi e il dolore (seppur momentaneo) del sedere sul pavimento!
E poi, cosa dire di quando si vede una persona amata pensierosa e preoccupata e ci si avvicina per chiedere: “A che pensi? Cos’hai?”, per sentirsi rispondere: “No, niente!”.
Niente è artifizio, maschera indossata alla fatica di comunicare e forse anche di dire a se stessi cosa fa male o, semplicemete, cos‘è che proviamo e che pare, però, incondivisibile, poco importante agli occhi degli altri.
Niente è negazione del corpo, ma il corpo non prova mai il niente. Forse non capisce, forse non sa esprimere un sintomo, forse serve la fatica di collegare una sensazione al sentimento corrispondente, ma, il corpo, è un continuo accadimento di cose, fosse solo del sangue che circola, del cuore che pompa, dei polmoni e dell’ossigeno in sinergia.
“Niente paura/niente panico”, lo si sente dire, sempre, quando i motivi per provar paura e scatenare il panico sono così veri ed evidenti da essere innegabili! Come nei films americani: il fuoco divampa tra gli uffici di un grattecielo e il polizziotto, sudato e ansimante, esclama: “Niente panico!”, nel medesimo istante in cui il protagonista si accorge degli abiti del migliore amico avvolti dalle fiamme!
Niente è il termine che segna la frattura del dialogo, quando non si riesce ad andare avanti e la relazione si infrange: “È inutile che continui a parlare, non c’è niente che può farmi cambiare idea”. Che senso di disperazione e rabbia provoca l’infrangersi delle nostre ragioni sulle convinzioni dell’altro.
“Non c’è più niente da fare”. È il colpo mortale inferto alla speranza.
E poi, quando sì è a fianco di una persona alla quale si vuole dire qualcosa di importante, di veramente nostro; mentre lei parla di tutt’altro, ci si concentra per trovare il modo giusto d‘esprimere quello che vogliamo dire, il coraggio necessario a farlo, cominciamo a borbottare qualcosa, l’altro si gira, ci guarda ed esclama: “Cosa?” E noi: “Ehm…no, niente“.
Niente è l’aggancio mancato, il contatto non avvenuto. È il rinnegamento di ogni responsabilità. E, infatti, quando i ragazzini giocano senza prudenza e capita che il più piccolo fra loro rovini per terra, il più grande si rivolge all’adulto vicino, alza le braccia e afferma: “Io non gli ho fatto niente!”.
Niente è il desiderio degli altri per noi quando soffriamo, come se negare il motivo del dolore fosse un modo di evitare la sofferenza.
Il niente è il contrario della realtà. È la separazione di una parte dal tutto a cui appartiene. È minimizzare, dire che qualcosa non è importante, è il grottesco tentativo di negare le nostre reazioni.
“Non è successo niente“, è il re degli ossimori! L’accadere e il niente non sono compatibili, la vita e il niente sono contrari inconciliabili! Noi siamo un flusso continuo di avvenimenti, un incessante procedere di fatti, un misterioso seguitare di pensieri, un incalzante proliferare di sensazioni. Tutto ci coinvolge e a tutto noi reagiamo. E quando la nostra reazione ci travolge, ci coinvolge fin dalle viscere e ci svela parti di noi inesplorate, quando non sappiamo cosa e come fare, lo smarrimento diviene terreno fertile al germogliare del niente, che, in realtà, vuol dire: “Non capisco cosa mi accade, non so cosa succede, non riesco a dire quello che provo!”.
Se solo riuscissimo a descrivere quanto ci attraversa mentre ci attraversa, descrizione del sentire senza categorie e senza timore di inciampare su definizioni che non ci appartengono! Forse saremmo tutti più fragili, esposti ai pericoli dell’incomprensione, impauriti dalla consapevolezza di ciò che siamo, di come siamo eppure vivi, presenti, esistenti.
Sembra che il latino nihil derivi da ni-hilum: “non un filo”, neppure quello.
Bella questa tua riflessione. Io a volte mi sono persa dietro l’etimo di “nessuno”, “neppure uno”. In greco è bellissimo “oud-eis”; e sempre immagino Odisseo che quando affermò di chiamarsi così, “non uno”, forse tra sé sorrideva pensando che lui era “non uno”, ma tanti, che lui era tutti i compagni legati al ventre caldo delle pecore, e tutti quelli che sarebbero venuti anche dopo, che mai avrebbe immaginato quanti sarebbero stati, quanti: “non uno”…