Sono stata io

Falcone_borsellino

Oggi ho accompagnato una classe alla visione del film “La mafia uccide solo d’estate”.
E fino a qui, niente di speciale. Se non il fatto di aver passato una mattina fuori dalle mura della scuola. Il sole era pallido, ma pur sempre sole. E le loro facce, al sole, forse, non le avevo mai viste. Fuori dalle mura di scuola mi son sembrati più piccoli. Come se la città enorme, attorno, restituisse loro la giusta misura.
Le spalle libere dagli zaini enormi, pesanti. Solo una borsetta, meglio na’ borza, come dicono loro. Appena il peso lieve di qualche panino avvolto nella carta stagnola.

La visione di questo film è stata preceduta da due lezioni. Due lezioni inventate, da me. Ho utilizzato ingredienti mai mischiati prima e non sapevo davvero cosa ne sarebbe venuto fuori. Volevo mettere insieme giustizia, mafia e vita. E magari, detto così, sembra che tutto questo poco c’entri con il fatto che io insegno Religione. Eppure, per me, la connessione esiste e neppure troppo nascosta.

Nella  prima fase di preparazione mi sono scoraggiata. Lo confesso. Prendevo appunti sulle cose che avrei voluto dire, ma tutto mi sembrava sterile, teorico. Mi pareva che quanto avevo da comunicare gli arrivasse come nozione tra le nozioni, come una notizia fra le notizie. E non volevo che fosse così. Allora ho capito che peccare di superbia questa volta mi sarebbe servito. Non dovevo concentrarmi per preparare UNA lezione, dovevo impegnarmi a preparare LA lezione. Così ho pensato di utilizzare il solo talento che, forse, possiedo cioè quello di raccontare storie.

Mafia e giustizia…in astratto non avrebbe funzionato. Poteva funzionare solo se avessi trovato il modo di raccontare la mafia e la giustizia mescolate alla mia storia personale. E non certo perchè la mia storia abbia qualcosa di particolare o speciale, ma semplicemente perchè l’esperienza ha sempre la meglio sulla dottrina. Anche in un caso come questo.

Ho iniziato a raccontare ai ragazzi di quando da bambina credevo che la mafia fosse un virus. Si, una malattia: “Bisogna stare attenti alla mafia, in quel quartiere c’è la mafia, non bisogna avvicinarsi ai mafiosi etc etc.” A Palermo la parola “mafia”, come giustamente sottolinea Pif nel suo film, si impara presto, è una tra le prime parole che entrano a far parte del vocabolario di un bambino. Anche se non la pronuncia, anche se non ne conosce il significato, un bambino palermitano sa che con quel termine bisogna familiarizzare, e in fretta, per poter decidere poi, crescendo, se tale familiarità sarà utile ad evitarla, la mafia, a combatterla o a sceglierla.

Son partita da lontano. Cercando di tracciare delle linee che potessero spiegare come si è passati dalla legge del taglione (di per sè passo notevolissimo di equità) alla “legge uguale per tutti”. Alla fine di questo tracciato, che in molti punti si presenta come un elettrocardiogramma impazzito, ho detto loro: “Mafia è ciò che costringe a chiedere come favore ciò che invece spetta di diritto”. Vero. “Ma a nuddu canusci? Ma a nuddu putemu dumannari?”. Conoscere, chiedere. E non per avere una poltrona in regione alle prossime elezioni, ma per poter fare una radiografia in ospedale, per esempio.

Mentre io crescevo, a Palermo, negli anni ottanta, l’asfalto della città di sangue ne ha bevuto fino a perder conoscenza. Come fanno gli ubriachi che ad un certo punto crollano. E dormono. Cadendo in un sonno profondissimo difficile da svegliare: “Per svegliarli ci vogliono le bombe”, si dice. E infatti. Per svegliare Palermo, di bombe ce ne sono volute almeno tre: una per Chinnici, una per Falcone e una per Borsellino.

Durante queste lezioni, in alcuni momenti, mi son messa paura. E si, perchè mentre io stavo lì a raccontare di queste cose mi sono accorta di avere addosso tutti gli occhi dei ragazzi. Oh, mi stavano ascoltando! Con gli occhi soprattutto. E non gridavo mica, no. Ho pensato, però, che non dovevo lasciarmi intimorire da quegli occhi che ascoltavano. Ormai la storia andava raccontata. Tutta. Fino in fondo.

Così ho continuato a parlare e a mostrare spezzoni d’interviste, immagni di macchine sventrate e corpi rosso sangue. E mentre parlavo e mostravo, erano i pezzi della mia storia personale che si mettevano a fuoco, svelandomi aspetti e connessioni presenti in me e ancora non riflessi. Frammenti di materiale grezzo tutto da lavorare.

Io faccio il compleanno a giugno. Così posso dire di aver avuto un’età per la strage di Capaci e un’altra età per la strage di via D’Amelio. Il computo degli anni si fa in stragi e morti ammazzati se sei nato a Palermo. Anche se la mafia, diciamo così, non  ti ha mai privato, direttamente, di relazioni e persone importanti. Io chi fosse Giovanni Falcone non lo sapevo quando Fabrizio Frizzi e Milly Carlucci hanno dato l’annuncio della sua morte, interrompendo per qualche minuto la loro trasmissione: “Scommettiamo che…”. Ricordo però che la signora Carlucci disse una frase in inglese: “The show must go on”. Solo dopo capii che la mentalità dello spettacolo da continuare a tutti i costi aveva lasciato sprofondare l’Italia nel baratro del niente.

Da quel 23 maggio 1992 il nome di Giovanni Falcone mi divenne familiare. Conosciuto. Divenne per me il volto di un uomo con i baffi e la sigaretta in bocca, che quando sorrideva germogliavano le viole dalla terra secca. Giovanni Falcone aveva un sorriso da benedire la vita! Ma, nella mia di vita, c’era ancora spazio per altri baffi e altre sigarette. E così dell’esistenza di un certo Paolo Borsellino sono venuta a conoscenza 57 giorni dopo, quando il rumore di una forte esplosione e una colonna di fumo nero si intrufolarono a forza nella valigia che stavo preparando per recarmi al mare, a San Vito Lo Capo, il giorno dopo. Di quelle vacanze ricordo il silenzio. In spiaggia, l’indomani, c’era il mare, la gente e il silenzio. Silenzio e tanti giornali. E visi seri. Non erano visi da vacanza al mare quelli, erano volti impauriti, paura mischiata al peso della sconfitta e a quello, ancora più amaro, di una rabbia priva di interlocutori che ne fossero all’altezza. Avevo un’età prima del 23 maggio e ne ho avuta un’altra dopo il 19 luglio del 1992. E non solo perchè in mezzo ci stava giugno e il mio compleanno, ma soprattutto perchè ho capito di non poter essere più una bambina. Avevo visto mio papà piangere davanti alle prime immagini dell’attentato. E quella colonna di fumo che saliva dalla città sembrava dirmi chiaramente: “Ehi, signorina, vedi che… non ti difendenderà nessuno, da ora in poi”. I balconi sbriciolati, le finestre sventrate, i lenzuoli a coprire pezzi di corpo, le facce sconvolte dei primi soccorritori. Tutti spaventati e sdegnati. E, da allora, tutti coinvolti. La mafia è entrata così ufficialmente nella mia vita ed io ho capito di essere nata a Palermo.

Ho cercato di comunicare ai ragazzi cosa fossero diventati nel tempo Falcone e Borsellino. Ho cercato di spiegare loro quanto la vita di quei giudici fosse presente dentro di me, come una casa tutta da esplorare della quale non possiedo ancora le chiavi. Guardo dalla finestra, aspettando d’esser capace di aprire la serratura e prendere così  possesso di ciò che all’interno vi è custodito.

E mentre sullo schermo della lavagna interattiva apparivano i primi secondi della famosa intervista di Falcone sulla paura e il coraggio, due ragazzini si sono avvicinati al mio orecchio e con un filo di voce mi hanno chiesto: “Ah, prof., ma che davero è lui FaRcone?” – “FaLcone! Si, è lui” – “Ah prof., ma che lei o sa che la faccia sua nun la conoscevo?”. Mi è preso un colpo. Ho pensato: sono stata io.

Sono stata io a mostrare a quei ragazzi, per la prima volta, i vostri volti, miei cari giudici. Compresi di baffi e sigarette. Ero stata io. Mi è parso d’aver fatto una cosa così importante da pensare di poter davvero cambiare mestiere, adesso. Si, come fanno i campioni quando vincono l’oro alle olimpiadi e nel pieno delle potenzialità, si ritirano, perchè in fondo sanno d’aver raggiunto l’obiettivo. Ho fatto esistere i vostri volti e le vostre storie nei volti e nelle storie di un gruppetto di adolescenti romani. Adolescenti di un quartiere di periferia, ragazzini che sanno, da sempre, cosa voglia dire droga e sfruttamento. Ragazzi che, spesso, hanno almeno un membro della  famiglia “in gabbia”, come dicono loro; ragazzini abituati a vedere nelle forze dell’ordine (“le guardie”, le chiamano) quasi una minaccia. Adesso questi ragazzini camminano per la strade della vita e sanno di voi. E così, in forza di quella superbia che mi ha portato a concludere oggi questo percorso, posso davvero prendere in considerazione l’idea di rimettere le mie cose in valigia e ripartire. Quello che dovevo fare qui, l’ho fatto. E la cosa incredibile è che non sapevo di doverlo fare…fino a quando non l’ho fatto.

 

7 pensieri su “Sono stata io

  1. Tu insegni Religione.
    Re-ligione.
    Insegni a vedere quel filo che lega e rilega e collega le cose, e permette di leggerle e di scriverle, e di vedere un nesso in questo mondo altrimenti così disarmonico.
    In-segni: lasci il segno, l’impronta.
    Un impronta nel cuore di chi ti ascolta.
    Grazie, Giulia, davvero sei Eufemia tu.

  2. L’ha ribloggato su eufemia, frammentie ha commentato:

    Sono trascorsi due anni, adesso è un’altra la vita ed è di nuovo la mia città. Io resto dell’opinione che tutto si è concluso quel giorno, ma nonostante la mia convinzione non mi fanno andare in pensione. Devo continuare a lavorare, dicono. E lo direbbe pure il dottor Falcone.

Rispondi