Serve. A volte, serve. Riporre in un cassetto la meta, la sua ricerca, la fatica di raggiungerla, indossare il cappotto, i pantoloni di velluto che fuori è freddo, un paio di vecchie scarpe, e uscire.
Senza destinazione o scopo. Uscire. E basta. Volontaria perdita di direzione, complice magari la spossatezza per un sabato sera finito alle tre del mattino, il sonno, il mal di gola per il freddo preso sul motorino, nonostante i 25 Km all’ora. Roma la notte sottrae gente alle strade, se si va dal centro alla periferia. Si resta in pochi. E sotto casa in due, fino a tardi, perchè tanto ormai il freddo s’è già preso tutto, ma le cose da condividere non si esauriscono, mai. Forse è la speranza che l’altro possieda il pezzo mancante per intuire il soggetto del puzzle: pezzi sempre dispari tra le mani. Al freddo, stanchi senza sonno, a ragionar sull’irragionevole terrore che fa la felicità a portata di mano, con la vita e l’età che rincorrono e il fiatone a dar ritmo anomalo ai polmoni, ogni giorno. Camminare per la città, con l’ago della bussola ebbro di vino, che gira impazzito, posseduto dal desiderio di andare, ovunque. Tutte le direzioni possibili, pensando all’amico lontano, e alla sua richiesta di piedi per passeggiare Roma, senza fretta, come nei suoi anni passati. Perchè a Roma si arriva ma da Roma non si riparte mai davvero. Roma ruba pezzi: occhi, cuore, cattura pensieri, trasforma i progetti. E anche se vai via o se resti o anche se poi torni, li ritrovi tutti, i pezzi, parte del paesaggio, tra i mattoni antichi. Così è Roma, cammini, e ritrovi i pensieri in equlibrio precario, funamboli sui fili del tram, occhi fissi, come le colonne diritte dell’impero che svettano ancora dal suolo. Il cuore al tramonto, quando la città si accende, o fra le rovine antiche, i pensieri, nei cortili dei palazzi a Trastevere. I progetti, nonostante tutto, ancora in piedi, tra le macerie nobili di Torre argentina a render affilate le unghie dei gatti. Roma, ruba pezzi e non li restituisce. Il cielo è terso e le strade son piene di autunno. A Roma l’autunno è invadente. Riveste tutto, alberi, marciapiedi, monumenti. Non c’è scampo. Il buio delle cinque è solo breve passaggio su ponti che si accendono di luce soffusa. Il Tevere nasconde le acque torbide e si veste di riflessi. Inganna. Attende l’inverno, per gonfiarsi minaccioso e imponente d’acqua e di neve lontana. Camminare, senza sapere dove andare e senza smarrimento, ad imboccare viicoli, costeggiare palazzi, girare angoli. Roma è insieme di angoli stretti e piazze immense, è una città priva di misura media, è troppo stretta o troppo ampia, nasconde ed espone, continuamente. Gli addobbi di Natale risvegliano la sua identità pagana e il suono delle campane le ricorda antichi innesti. Roma è tante cose opposte, tutte vive e presenti, è identità multiforme. Pochi passi per attraversare secoli. A volte si cammina con il naso in su, a cercare in alto cupole e terrazze d’edera, altre con occhi bassi a tener il ritmo delle punte dei piedi, passi veloci di fretta perché a Roma si è sempre in ritardo. Altre volte ancora si cammina con sguardo dritto, ad altezza d’uomo, per vedere il mondo venirti contro, facce di luoghi lontani e diversi, davanti, alle spalle, a Roma il mondo circonda, tutto circonda, anche la miseria. Roma è miscuglio d’umanità e cartone di letto umido, è fiato pesante di alcol sul tram, barba dura di sporcizia, stracci e occhi persi chissà dove, chissà quando, accesi di rabbia. Roma è potere e bottega, è politica e bocca di popolo sporca di sugo. Roma si vende, ogni giorno, su bancarelle colorate sotto l’occhio severo di Giordano Bruno, per coprire, oggi come ieri, con voci di merci e mercanti, le urla di fiamme infami. Umidità sui capelli, gambe stanche, ma camminar così, senza la preoccupazione di sbagliare strada ridà forza, rinsalda i muscoli. Ogni strada è quella giusta, è il luogo dove si vuol essere. Roma nasconde passaggi segreti, varchi, come aperture di sepolcri antichi, che evitano km sulle arterie principali, scorciatoie di vene periferiche, esse pure cariche di sangue da portare. Quando si passeggia Roma alle porte dell’inverno a sceglier la fine dei passi sono freddo e stanchezza. Basta voltarsi da qualche parte, allora, per trovare le porte di una chiesa e riposare, porte aperte, senza troppe pretese. Accoglienza anonima di spirti randagi, fiammelle senza nome, tepore al corpo nudo di chi ha tanto camminato a mendicare incontri. Casa, è sera. Piove. La meta riposta in un angolo scalpita per essere cercata, chiama. Il tram fischia sulle rotaie e nelle orecchie note e parole per accompagnare il fluire lento e costante del ritorno.