Dovete avere una grande fiducia nella vostra capacità di visione, un’enorme fiducia nel vostro desiderio.
Paolo Dall’Oglio.
Dovete avere una grande fiducia nella vostra capacità di visione, un’enorme fiducia nel vostro desiderio.
Paolo Dall’Oglio.
Caro Abuna Paolo,
in questi giorni tutti parlano di te. Vengono dette molte cose, diverse tra loro, contraddittorie, confuse, presuntuose. Neppure in questo ti è toccato in sorte un destino diverso da quello toccato alla Siria e alla sua gente.
Ci si chiede se sei vivo, se sei morto, e quale senso abbia sperare che tu possa venir fuori come Lazzaro dal sepolcro, fra le macerie di un paese offerto in sacrificio sotto gli occhi di tutti, sull’altare di sistemi infami e di un mondo troppo troppo ingiusto.
Ti si rimprovera d’essere andato a morire, inutilmente. Che pensavi di fare? Parlare con Al Baghdadi? Riuscire in mediazioni fallite (ma mai veramente provate?) dai più alti corpi diplomatici internazionali? Far liberare i prigionieri? Riportare gli estremisti all’Islam della pace? Volevi fare meglio di Gesù forse? Riuscire a disinnescare la miccia della guerra, il furore dell’odio?
Ma il punto, io credo, non è questo, il punto non è cosa volevi fare quel 29 luglio di quattro anni fa, tornando clandestinamente a Raqqa. Il punto è quel che avevi fatto nei trent’anni precedenti, quando tutti i riflettori sulla Siria erano spenti e tu vivevi tra le montagne rosa di un paese oppresso si, ma vivo, attivo e bellissimo.
In quel viaggio assurdo che ti ha inghiottito chissà dove e chissà per quanto, hai cercato di non disperdere i frutti di una vita. Non volevi assistere alla morte dei ragazzi che avevi visto crescere e con i quali avevi parlato, studiato, lavorato perché la Siria diventasse libera, unita, colta, spirituale oltre qualunque intolleranza religiosa, perché la convivenza e la reciproca conoscenza sono le fondamenta della pace e tu lo sapevi già e tu lo vivevi già.
Non potevi guardare dalla poltrona della tua casa di Roma, dove il regime ti aveva esiliato, lo sfacelo di un sogno per il quale avevi comunque già offerto la tua vita.
Basta leggerti ed ascoltarti per capire che in te e nella tua storia personale di equilibrato non c’è nulla. Tu stesso lo dici di essere cresciuto tra “collera e luce”. E per paura di mancare l’obiettivo e il senso della tua esistenza, sei stato probabilmente puntuale all’appuntamento, incomprensibile per molti, con la tua morte.
Ma, caro Paolo, tu che all’appuntamento con la mia personale rivoluzione umana e spirituale sei stato di una puntualità disarmante, tu che hai polverizzato con la forza della tua esperienza l’idea di un cristianesimo chiuso, sempre in trincea, autoreferenziale, ridicolmente e pericolosamente asservito ai giochi feroci di dominio di pochi piccoli uomini, tu che hai fatto moltiplicare il frutto dei miei studi biblici e dato senso alla faticosa ricerca su quelle parole antiche, sapienti e difficili, tu non puoi certo pensare che io mi rassegni così alla tua morte.
Tu devi tornare per forza. Perché in questi quattro anni tanti di noi si sono preparati, come hanno potuto e saputo, a ricostruire la Siria, tanti giovani e meno giovani, in occidente, oggi sanno e fanno cose che prima sarebbero state impensabili: studiano l’arabo, leggono il Corano, si informano e si formano cercando di capire il mondo arabo e l’islam, costruendo il dialogo, tendendo le loro mani.
Abbiamo fatto e continuiamo a fare quel che possiamo, perfino in un paese come il nostro Paolo, dove le ingiustizie sembrano non suscitare sdegno. Lo abbiamo fatto e lo facciamo nelle scuole dove insegniamo da precari, nelle librerie indipendenti che lottano per una cultura plurale e libera, nei circoli Arci, nei comitati antirazzisti, lo facciamo da giornalisti freelance sottopagati, seppur bravissimi.
Cosa è questo a fronte di un milione di morti e undici milioni di sfollati? A fronte delle torture nelle carceri di Bashar al Assad? A fronte dei gas che uccidono i bambini? A fronte dei morti nel mar Egeo e nel mar Mediterraneo? A fronte di potentissime forze politiche e militari, delle loro bombe, delle loro tattiche sporche? A fronte delle divisioni interne al mondo arabo, antiche e dolorosissime? A fronte del dilagare di una sottocultura fascista che si nutre di ignoranza e che scansa la fatica di qualsivoglia conoscenza?
Niente. Non è niente. Ma lo stiamo facendo lo stesso.
Però, Paolo, se tu, da solo, pensavi di poter evitare la distruzione della Siria, noi, siriani e non siriani, arabi e occidentali, cristiani, atei e musulmani, noi che, prima di tutto, ci sforziamo di lavorare alla consapevolezza dei nostri cuori e poi alla pace tra le persone, tra le infinite contraddizioni della condizione umana e i più svariati errori, rivendichiamo il diritto alla speranza, rivendichiamo il diritto di vederti, parlarti, ascoltarti, di nuovo.
Chi potrà guarire le ferite che tanta morte, abbandono, ingiustizia e violenza hanno provocato? Davvero, non lo so. Non so se sia possibile, non so neppure se Dio sia capace di sanare tanto dolore. Ma so che la pace può essere invocata e credo, oltre il limite di ogni ingenuità, che la consolazione e la grazia della vita sono risorse inesauribili perfino nel cuore degli umani più feriti.
Lo vedo negli occhi, nelle parole, nelle azioni dei genitori di Giulio Regeni, per esempio, così come negli occhi, nelle parole e nelle azioni delle famiglie siriane giunte nella mia città. I loro bambini giocano con i miei nipoti e la loro speranza di riuscire a ri-vivere incontra l’impegno e la tenacia di coloro che non considerano inutile lottare contro i giganti. Proprio come hai fatto tu, prima abbandonato dai tuoi, in quell’isolamento che la “struttura chiesa” riserva ai profeti colmando, con la malizia e la menzogna, la distanza che c’è tra il compimento della giustizia e la propria sclerocardia e poi vessato dal regime, ma tenacemente convinto della forza del popolo siriano e della potenza di quel vangelo di pace che le comunità credenti ovunque nel mondo continuano ad annunciare.
Quindi, Paolo, ora basta, adesso è tempo di tornare.
E nell’attesa che non demorde, intanto, As Salaam alaykum fratello mio, ovunque tu sia.
Frequentavo la 1° elementare quando Mu’ammar Muhammad Abu Minyar ‘Abd al-Salam al-Qadhdhafi cioè il generale Gheddafi lanciò due missili SS-1 scud verso Lampedusa. Fu allora che mi resi conto della vicinanza geografica tra noi, la Sicilia, e l’Africa araba.
Frequentavo la 5° elementare, invece, quando scoppiò la “guerra del golfo” guidata da George H. W. Bush e fu allora che compresi quanto vicino a noi fosse anche il Medio Oriente. In entrambi i casi alla sigla del Tg correvo in camera per nascondermi sotto al letto e non ascoltare gli aggiornamenti sulla guerra, per fuggire quel senso di pericolo e quella difficoltà invincibile alla comprensione. Anche se frequentavo le elementari, infatti, la teoria degli americani buoni e degli arabi cattivi mi convinceva poco e non perché fossi esperta a quell’età di politica estera o storia, ma semplicemente perché mi guardavo allo specchio e mi guardavo attorno e non vedevo facce “americane” volermi bene e prendersi cura di me, vedevo facce arabe: per me gli arabi erano i buoni!
Quando da bambina rientravo dalle vacanze al mare mia nonna mi abbracciava e poi volgeva lo sguardo preoccupato verso i miei genitori dicendo: “E fatele prendere un poco meno sole, pare proprio saracena!”.
Durante i miei viaggi all’estero o negli anni trascorsi nella penisola fuori Sicilia, mi sono sentita chiedere infinite volte se fossi italiana. Rispondere: “Si, sono italiana, vengo da Palermo”, mi è parsa sempre una mezza verità.
Solo il tempo e gli incontri della vita mi hanno aiutata a prendere consapevolezza di quanto fosse forte quel richiamo, quella voce lontana ma distinta che mi portava a leggere autori arabi e ad interessarmi delle vicende legate a quella realtà. E per la mia naturale propensione a preferire le storie periferiche e gli attori non protagonisti, ho sempre amato moltissimo, come credo abbia pure fatto il patriarca Abramo, sia Agar che Ismaele (cfr. Genesi 16-21), senza dovere, per tale ragione, diminuire o censurare il fascino e la meraviglia per la storia ebraica di cui mi occupavo per i miei studi biblici.
Proprio per questo, quanto vissuto negli ultimi giorni è per me la realizzazione concreta di una parte della mia identità personale oltre ad essere la realizzazione di un sogno.
Quando il 29 luglio del 2013 Paolo Dall’Oglio è stato rapito in Siria, mi sono sentita come travolta da un’urgenza: leggere, studiare, capire, parlare, fare. Le sue parole erano state per me come il fuoco ed io, adesso, non potevo non cominciare ad occuparmi davvero del suo amore più grande: la Siria. Con il tempo mi sono resa conto che la Siria per quanto stava accadendo al suo popolo era, in realtà, affare di tutti, premura per tutti. E così, iniziando ad insegnare ho cominciato ad elaborare progetti finalizzati a far conoscere e comprendere le Rivoluzioni arabe, la vicenda siriana, l’Islam.
Non è andata sempre bene. Ad esempio una volta, proprio subito dopo un incontro in aula magna su Paolo Dall’Oglio, ho sentito due ragazze parlare tra loro dicendo, cito testualmente: “Ma chi cazzo se ne frega, ma chi è questo e lei cosa vuole da noi!”. Mi sono addolorata, ovviamente, moltissimo. E tante volte, ancora oggi, mi accade di rientrare a casa desiderando di fare qualunque altro lavoro, ma non questo!
Ma la scuola è un posto incredibile, davvero poco intellegibile per chi la guarda da fuori. Forse sono in grado di comprenderla più i contadini che i funzionari del Ministero della pubblica istruzione (già sul termine “Istruzione” si potrebbe e si dovrebbe discutere a lungo). La scuola è un luogo di semina spesso senza raccolta, perché il tempo buono della mietitura si compie lontano dalle aule e dai banchi, lì dove la vita non ha più protezioni e pretende d’esser vissuta. I ragazzi a cui insegno non sono né grandi né piccoli, sono come un grumo di potenza vitale atomica pronta ad esplodere, giorno dopo giorno. Sono giovani, ma spesso già feriti a morte, alcuni sembrano impermeabili a tutto, altri chiedono di uscire dall’aula perché il confronto diretto è troppo per loro.
Ma ieri erano lì tutti e duecento, ciascuno con la propria capacità di attenzione, forse inadeguata all’intensità degli argomenti trattati, al peso delle parole che descrivevano esperienze che nessuno dovrebbe vivere. Ieri, a scuola, i ragazzi hanno potuto incontrare ed ascoltare chi dalla Siria è giunto fin qui grazie ai corridoi umanitari della chiesa Valdese e della comunità di Sant’Egidio.
Quando Adel, siriano di Homs, ha cominciato a parlare in arabo io mi sono sentita felice, perché la sua voce che rimbombava all’interno della palestra di questa scuola palermitana di periferia, era per me una vittoria sugli slogan urlati in tv, sulla mala politica, sul giornalismo populista. Eravamo lì tutti insieme e ci stavamo in pace. Le domande dei ragazzi a Shady Hamadi, autore di “Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza” erano domande sincere, curiose, piccoli germogli, fragili e forti insieme, venuti fuori da ore e ore e ore di lavoro in classe.
E’ stato bello ieri perché c’eravamo tutti: ragazzi, docenti, dirigente, personale ATA, tutti. E’ stata la comunità scolastica ad accogliere Shady Hamadi, Fabrizio Piazza (libreria Modusvivendi), la dott.ssa Anna Ponente, direttrice del centro La Noce – Istituto Valdese, la mediatrice culturale Safa Neji e Adel el- Ali. Ciascuno aveva collaborato alla realizzazione di questo incontro ed è per questo che per tutti è stato importante.
Da ieri ricevo messaggi di persone sconosciute che mi ringraziano per la presentazione di “Esilio dalla Siria” presso la libreria Modusvivendi e di ragazzi e colleghi che sentono di voler condividere con me le emozioni di un’esperienza forte perché vera.
Ha ragione Shady Hamadi quando con la forza dei suoi ventotto anni e la carica della sua rabbia sacrosanta ci esorta, soprattutto, ad incontrarci e parlare. Discutere della Siria, del mondo arabo e di qualunque cosa possa alimentare il pensiero critico, il solo capace di renderci individui liberi pronti ad assumersi la responsabilità della propria vita anche rispetto a quanto accade attorno.
Ieri non abbiamo certo posto fine alla guerra in Siria e non abbiamo potuto sollevare nessuno dalle sofferenze del conflitto. Eppure quel che abbiamo vissuto e fatto ha superato realmente il bipolarismo sempre oscillante tra assenza di pensiero e azione o rassegnazione, che molti ci presentano come unica alternativa possibile. Non è così ed è questa la mia, la nostra resistenza!
Mio giovane amico,
T’immagino, o ti spero, animato da un desiderio di impegno. Sei musulmano, cristiano, credente, ateo o in ricerca, e io mi rivolgo alla tua aspirazione al bene […].
O ci mettiamo sulla strada della differenza oppure sulla strada della morte o si accetta la differenza oppure la si sopprime. La Siria è, da questo punto di vista, un luogo altamente centrale e simbolico. Non si tratta qui soltanto di un povero popolo abbandonato nell’est del Mediterraneo, bensì di questioni che sono di urgente attualità ovunque nel mondo. Dibattendo della Siria, tu e il tuo vicino, cristiano, musulmano, ebreo o altro, è di voi che parlate: discutete delle vostre stesse relazioni. Quando gli europei evocano la Siria, parlano del loro destino.
da “Collera e Luce. Un prete nella rivoluzione Siriana” di Paolo Dall’Oglio
(Le foto presso la libreria Modusvivendi e l’I.S. Majorana sono di Carlo Columba)
Venerdì 10 febbraio resterà per me una data da ricordare.
Importante perché ho visto e sperimentato in prima persona il circolo virtuoso che passione, amicizia, studio, consapevolezza riescono a creare.
Il mio personale e crescente interesse per il Medio Oriente e il mondo arabo mi ha fatto incontrare tempo fa una donna, Marta Bellingreri, che di quella porzione di mondo si occupa con grande impegno e passione. Marta mi ha invitata alla presentazione di un libro, “Rivoluzioni violate”, io ho letto il libro e, a mia volta, ho invitato altri amici che insieme a me hanno partecipato all’evento, acquistando il testo, e con i quali è continuato lo scambio di impressioni, idee, emozioni.
Con le persone che ho lì conosciuto si sono creati nuovi contatti in vista di possibili incontri di formazione e informazione da realizzare a scuola: è la speranza che questa rete di conoscenza, passione e solidarietà possa avere lunga vita attraverso i ragazzi. Per questo motivo affido oggi le pagine di Eufemia alla voce di una delle persone che con me da un po’ di tempo condivide interesse, tensione e preoccupazione per quelle rivoluzioni del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale che interpellano da vicino la nostra coscienza di cittadini liberi e nelle quali tutti dovremmo aver contezza d’essere personalmente coinvolti.
E’ il punto di vista di chi, pur appartenendo ad una generazione diversa dalla mia, forse più disincantata, ma più consapevole, resta però sempre lucidamente in ascolto, curioso, disposto a partecipare ai processi di cambiamento necessari al compimento della giustizia.
Giulia Lo Porto
Rivoluzioni Violate è il titolo del libro presentato ieri al circolo Arci Porco Rosso a Palermo, nel cuore del centro storico, in un locale che per dimensioni e arredamento ricorda luoghi movimentisti degli anni settanta e ottanta, ma rispetto a quelli (e a quel periodo) con una differenza notevole di frequentazione: per varietà delle fasce di età rappresentate e per varietà di provenienza etnica e culturale e di colore della pelle.
Gli interventi di tre degli autori dei diversi saggi contenuti, sono stati centrati intanto sulla scelta del titolo: come fa una rivoluzione ad essere “violata”? Che significa? La domanda viene ovviamente dalla considerazione che tutti i paesi del nord-africa e gran parte del medio oriente sono sono stati attraversati quasi contemporaneamente da movimenti popolari e studenteschi centrati sulle stesse istanze: diritti civili ,rispetto delle minoranze, diritti della donna, libertà intellettuale. Praticamente dappertutto assistiamo oggi ad una marcia indietro rispetto alle aperture e ai cambiamenti che questi movimenti erano stati capaci di provocare, con conseguenze assai drammatiche culminanti con la situazione della Siria.
I tre, Cecilia Dalla Negra, Debora Del Pistoia e Fouad Roueiha, hanno esposto la situazione delle aree di rispettivo interesse: Palestina, Tunisia, Siria. Non voglio qui riportare quanto detto, produrrei solamente una insignificante sintesi, invito eventualmente a comprare il libro, ne vale la pena. Voglio dire invece quali sono state le mie impressioni.
Grande competenza ed esperienza da parte dei relatori, i quali, usando una lingua italiana assai corretta ed elegante, scansando la tentazione del forbito e del dotto, hanno esposto con precisione l’esperienza compiuta in quei paesi e i pensieri e le deduzioni cui erano giunti. Mi ha colpito questa modalità comunicativa e credo di non essere stato il solo, dal momento che l’incontro ha sforato le due ore conservando intatti l’attenzione e l’interesse di tutti pur trovandoci in un luogo dove a quelle sopraggiunte ore il costume dei presenti è usualmente “da pub”.
Ho capito poi che la complessità delle situazioni sul campo, quella siriana in testa, sono così complesse da rendere veramente difficile dire di “avere le idee chiare” , figuriamoci di poter prevedere qualche sviluppo sia pure in tempi brevi. Ho compreso infine, ma questo già lo sospettavo e farei meglio quindi a dire “ho avuto la conferma” della inadeguatezza dei mezzi di informazione sia a video che a stampa nel descrivere i vari accadimenti: succede che la pratica professionale del giornalismo, quella stessa almeno in parte responsabile dell’affermarsi della cosiddetta “post-verità”, ha costantemente semplificato sino alla banalizzazione la descrizione dei diversi accadimenti e processi, preferendo “pompare” su Isis e la cosiddetta “Guerra Mondiale” tra i paesi a cultura occidentale e quelli a cultura islamica. Preferendo, ancora, adottare tecniche di marketing basate su richiami pseudopornografici piuttosto che rischiare di perdere un lettore non disponibile alla complessità e preferendo posizionarsi ideologicamente su un terreno politicamente neutro e sicuro in quanto realmente lontano e indifferente agli attori veri sul campo. Scelta a dir poco irresponsabile e vigliacca.
Rilancio, per concludere, quanto detto da Fouad Roueiha: “Non è tanto importante quanto vi potrò raccontare io oggi, meglio sarebbe che ognuno di noi si facesse raccontare le storie personali e familiari da i diversi rifugiati che incontriamo nelle nostre città”.
Carlo Columba
Vogliamo che la gente conosca la lotta del popolo siriano in modo diverso
Queens of Syria è un film documentario di Yasmin Fedda. Narra la storia di un gruppo di donne siriana rifugiate in Giordania, coinvolte in progetto teatrale volto a mettere in scena le “Troiane” di Euripide e a raccontare, attraverso la tragedia greca, il dramma contemporaneo della Siria e della sua gente.
Queens of Syria è la narrazione di un’esperienza molto forte, capace di raccontare la guerra di Siria dall’interno, senza far sconti alla drammaticità degli eventi, ma caricandoli di quella speranza che la perseveranza della vita porta con sé. Le parole di Euripide sembrano le più adatte ad esprimere il dolore che abita il cuore dei rifugiati siriani.
Rasha, Suad, Maha, Hanan, Hedaya, e tutte le altre donne coinvolte nel progetto portano in cuore e nel corpo una grande pena: il dolore per i parenti uccisi e seppelliti nelle fosse comuni, lo strazio per la distruzione delle proprie case, lo sgretolarsi della vita quotidiana, l’allontanamento dalla propria terra. Nelle lacrime delle troiane, nel canto del loro dolore, man mano che lo spettacolo viene allestito, preparato, provato, le donne siriane ritrovano se stesse. Nei loro gesti all’inizio maldestri e scomposti e alla fine unanimi e pieni di pathos, lo spettatore osserva la forza che viene fuori dalla condivisione di un progetto comune e dalla complicità che ne segue.
I canali ufficiali, i giornali e i Tg, raccontano la guerra di Siria a partire dagli equilibri politici e dalle strategie di potere messe in campo da Stati Uniti, Russia, Turchia e dallo stesso Bashar Al- Assad. Anche il fenomeno delle migrazioni viene raccontato quasi sempre dando voce alle difficoltà di chi accoglie. Ma la guerra così come i viaggi dei migranti verso l’Europa devono poter essere raccontati dai protagonisti, da chi si ostina nella ricerca della vita fino a rischiarla del tutto. Il teatro, la danza, la narrativa forse non risolvono le guerre e non decidono i confini e le alternanze politiche, forse non fermano le bombe e non danno pane a chi ha fame, eppure il linguaggio dell’arte è l’unico capace di trovare parole diverse e punti di vista realistici strettamente legati al sentire delle persone coinvolte.
Attraverso la musica, la street art, il teatro, la poesia, la rivoluzione del popolo siriano continua a perseverare nella ricerca della libertà. Sono infinite le contraddizioni che caratterizzano questa rivoluzione, molte le sue degenerazioni, ma negli occhi di queste donne impegnate nella realizzazione di uno spettacolo teatrale, divise tra i figli, la paura del regime, il desiderio di riscatto, la gestione del dolore, il desiderio di autodeterminazione si scorge una forma di resistenza che riempie di fiducia: Hanno visto la morte, ma continuano a desiderare l’amore, hanno perso tutto ma continuano a immaginare un futuro, hanno visto violenza e distruzione, ma l’una con l’altra sistemano gli abiti e truccano gli occhi prima di andare in scena. Nella loro gestualità quotidiana e nella disponibilità ad imparare un nuovo linguaggio, quello del teatro, si esprime una forza tenace che tiene in piedi un intero popolo e, forse, anche tutti noi.
Forse il legame tra cultura e società civile è veramente oramai irrimediabilmente compromesso e l’arte, il cinema, la letteratura sono tutte nobili cose, ma ininfluenti, slegate dalla realtà, poiché incapaci di mutare il pensiero, interrogare le coscienze, innescare un cambiamento.
Ma che siamo tutti ottimi attori, è fuor di dubbio. Basta sorridere a favor di camera.
Ho fatto un giro intorno al mondo. Mi ci è voluto un pomeriggio d’estate e migliaia di chilometri macinati di buon passo sui sentieri interiori.
Il Festival internazionale di fotografia “Gibellina Photoroad” è un viaggio. Road, appunto, “la strada”. Un viaggio non solo perché le foto è così che sono: per strada, nelle piazze, dietro gli angoli, fra le mura degli edifici che fanno di Gibellina un posto unico al mondo, ma soprattutto perché le fotografie accompagnano nella sempre difficile e ardua operazione dell’introspezione guidata e sostenuta da un’opera d’arte. Non sono un critico, non capisco nulla di tecniche fotografiche, non conosco le avanguardie o i fotografi di tendenza, ma cerco di tenere gli occhi aperti, su me stessa e sulla storia che sto attraversando.
Il mio viaggio comincia da Baglio Di Stefano, tra canti di cicale e vento di campagna. Ci arrivo con il bagaglio delle parole intense scambiate durante il tragitto con l’uomo che mi accompagna, parole che demoliscono, parole che costruiscono, il dolce affanno del conoscere se stessi, del provare a conoscere l’altro. Entrare nel padiglione di arte contemporanea che custodisce le opere di Arnaldo Pomodoro è stato come metter piede in un mondo incantato. Muovermi tra le opere dello scenografo, tra le sue sculture geometriche di bronzi e ingranaggi, tra i dipinti e le installazioni di diversi artisti contemporanei, tra le foto della rassegna, è stato come avere una visione, non spaventarmi, attraversarla. Dalla vita notturna delle case, ritratta nelle foto bellissime di Turiana Ferrara, si passa, nel giro di pochi metri quadrati, a mondi diversi e complessi e a diversi e complessi modi di esprimere l’essere umani. Nessuna definizione a restringere lo spazio, nessun ruolo obbligato a determinare l’identità. Materiali diversi e le più disparate tecniche di realizzazione utilizzate per dar vita al proprio mondo, per dar sfogo al tormento o all’inquietudine, per creare spazi altri dove sperimentare l’esistenza così come accade e così come si vorrebbe che fosse.
Nel padiglione poco più lontano, molto luminoso e scarno, ci sono le foto di vari artisti, giunti sulle rovine di Gibellina ancora fresche di polvere e disperazione, subito dopo il sisma, a catturare i volti e le storie che il terremoto aveva seppellito mandando in frantumi la vita quotidiana di uomini e bestie. Tra le foto due si impongono ai miei occhi con forza fra gli scatti di Melo Minnella: una tendopoli e una donna con in braccio il suo bimbo. Potrebbero essere foto di oggi, frammenti di uomini e donne sparsi in uno fra i tanti campi profughi della terra: che brutta cosa – penso – dimenticare il dolore fino a non saper più riconoscere quello che si ha sotto gli occhi negli occhi degli altri, ogni giorno. Come è corta la nostra memoria.
Nella piazza del Municipio c’è un bar che bisogna visitare se si va a Gibellina. Si chiama “Agorà” ed entrarci è come sentirsi catapultati in uno dei paesi della dittatura comunista del secolo scorso. Vedere per credere. In piazza le foto sono enormi, a grandezza naturale, foto di facciate di palazzi, di persone che tornano da lavoro, foto di città devastate e squallidi spazi abbandonati ripresi dall’alto. Spazi urbani che si alternano a volti, volti che contengono storie, storie che si deve esser disposti ad ascoltare per capire il senso degli spazi e le espressioni dei volti: un girotondo di sensazioni, una vertigine.
Era la mia seconda visita a Gibellina e l’ho amata molto. Le sue stranezze mi erano più famigliari e le sue pietre più comprensibili. La sfera di luce bianca della cattedrale mi è parsa bellissima e così gli angoli del giardino antistante fra le cui mura si trovavano le foto delle “Pietre di Palermo” di Ezio Ferreri. Palermo, la città dalle rovine mute che ancora oggi non si riescono a raccontare, rovine di malinconia feroce e decadente, dal cui peso ogni giorno proviamo a riemergere. Si può sostare al riparo, custoditi da spigoli pungenti, seduti su panche ruvide di muro orizzontale, con la sfera di luce incombente alle spalle e il corpo di Cristo al di là del cemento armato, seduti a guardar le foto appese o a pensare o a raffinar l’olfatto per odorar la salvia e il rosmarino piantati a circondare la chiesa, forse nel tentativo di farla sentire una casa per tutti.
Le foto sparse nella città obbligano ad attraversamenti pedonali di piccola o media portata. E’ ancora estate e ci sono i ragazzi per strada. Ad ogni luogo la sua porzione di giovinezza: i bambini che giocano a pallone al Sistema delle piazze e gli adolescenti nella Piazza della memoria, i ragazzi che giocano a carte ai tavolini del bar e le ragazze che passeggiano, con gli smartphone in mano a causar distrazione e a far perdere la partita, fin da subito, a scanso di equivoci. Chissà se crescere in questo museo a cielo aperto che è Gibellina crea in loro un immaginario diverso. Chissà se le opere d’arte tra le quali giocano, camminano e crescono avranno la meglio sulla fantasia banale di orizzonti resi tutti uguali da facebook e dalla Tv. Chissà se lo spazio immenso, il silenzio e la luce di questo luogo li aiuteranno nelle scelte da fare per diventare adulti, chissà.
Alla fine del giro, tornando in auto, ripenso alle cose viste e capisco che due sono i lavori che ho particolarmente apprezzato. Il primo è di Giulio Piscitelli. Le sue foto ritraggono “quell’evento storico inarrestabile, quell’energia collettiva davanti alla quale si svelano le nostre meschinità” ovvero i viaggi dei migranti verso l’Europa. Le foto enormi costeggiano la strada e sono poste in alto. Bisogna alzare lo sguardo, quindi, con la testa leggermente indietro per poterle osservare. Sembra che ti vengano addosso e senti il mare e senti il deserto e senti la disperazione e vedi la paura, la vedi in quegli sguardi e sotto la tua pelle, anche se non hai da scappare con la morte alle calcagna e l’ignoto ad ogni passo.
Il secondo è di Issa Touma, un fotografo siriano, di Aleppo. Io a queste foto non ero preparata. Stavo ancora ammirando le geometrie e le asimmetrie delle Case Di Lorenzo realizzate dall’architetto Francesco Venezia, i muri color della terra e il cielo a stabilirne il confine, quando, voltato l’angolo, mi sono ritrovata davanti la guerra di Siria. Ritratti di giovani donne con una fascia bianca sugli occhi, donne violate proprio nell’intimo sacrario della propria identità: amici e parenti morti, lavoro perduto, le bombe sulla testa, l’impossibilità di progettare il futuro e di vivere il presente. Non so se si può dire di aver visto il volto di qualcuno se non lo si può guardare negli occhi, ma forse quello che la fascia bianca posta dall’artista nasconde è svelato dalle poche parole riportate dietro ad ogni foto. Solo il nome e un pensiero breve: Dima, Zanous, Angela, Lama e molte altre.
Le loro parole le voglio riportare alla fine di questa piccola cronaca, perché si dice che sono le ultime parole quelle a rimanere più impresse. Prima voglio provare, se riesco, a rendere un momento di questa visita a Gibellina, un momento breve, quasi invisibile, ma importante. Era il crepuscolo, tirava un vento sottile e dappertutto attorno era silenzio. Passeggiando insieme all’uomo che mi ha accompagnata ho avuto la percezione netta di quanto fosse importante tornare a casa con la consapevolezza di dover non ricordare, ma metabolizzare le cose viste, le parole lette, le sensazioni provate, farle diventare parti del mio corpo, pezzi di me. Le foto del Gibellina Photoroad non sono al riparo fra le mura di un museo. Sono affidate alla strada, agganciate in gran numero solo dalla parte superiore: il vento le fa dondolare, il sole ci batte contro. Sono nascoste fra gli angoli, trovarle è una caccia al tesoro. Non ci sono custodi a difenderle, né riparo alcuno dai temporali estivi, dai vandali, dai gatti randagi. Mi davano l’idea di appartenere a chiunque ed io le ho sentite mie. Lui mi camminava accanto, ma in questo incedere non eravamo soli. Eravamo in cammino con tutti e niente di quanto quelle foto ci avevano raccontato poteva esserci davvero estraneo o indifferente: da una sensazione personale e privata ai grandi drammi sulle spalle dei popoli, tutto quello che avevamo visto era nostro.
E lo erano anche le parole delle giovani donne siriane. Andrebbero ripetute a voce bassa queste parole, a fior di labbra, come un rosario, fino a quando non sarà chiaro a ciascuno quella cosa piccola, piccolissima, forse inutile eppure da fare per porre fine a tanto insostenibile, ingiusto, inaccettabile dolore:
Hiba, 31 anni.
Dopo 13 anni di indipendenza economica, oggi sono terrorizzata di perderla se Aleppo dovesse cadere nelle mani degli estremisti. Sarei intrappolata nel mio appartamento, incapace di uscire se non accompagnata da un familiare di sesso maschile. Ho attacchi di panico quando penso di perdere la mia vita, il mio lavoro, solo perché sono una donna.
Angela, 35 anni.
Ho studiato farmacia in Russia. È terribile non essere in grado di dispensare medicine alle persone che ne hanno bisogno. Nel 2012-2013 le medicine erano particolarmente difficili da trovare. Non potevo stare ad Aleppo. Dopo tre anni di guerra sono tornata nel mio villaggio, lontano dal puzzo della città che muore.
Zanous, 26 anni.
Non ho paura di morire, ho paura di un handicap fisico o mentale. Credo che Dio sia il Salvatore onnipotente ed ho intenzione di rimanere qui ad Aleppo.
Dima, 21 anni.
Da quando è iniziata la guerra ho detto addio a tante persone. Allora ho smesso di incontrare persone così non avrei dovuto più dire addio. Ho perso ogni senso di vivere. Sono rimasta ad Aleppo per finire i miei studi e ogni notte conto le bombe che esplodono intorno a casa mia fino a quando non mi addormento.
Lama, 25 anni.
Non avevo paura della morte, perché non sapevo che cosa significasse. Quattro anni di guerra mi hanno cambiata. Ora vivo ad Aleppo, il luogo più pericoloso del mondo. Ma sono ancora determinata a sognare, vivere e godere di ogni atomo di aria fresca e nubi bianche. Se sopravvivo a questa guerra voglio visitare la grande muraglia in Cina, praticare la meditazione indiana e continuare a disegnare.
“Se sopravvivo a questa guerra”. Prima persona universale.
Immagini della guerra in Siria, fin dal suo inizio, ne sono arrivate moltissime. Alcune di queste sono introdotte dalla scritta: “ATTENZIONE, le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità”. Mi fa sorridere questo avviso, poiché da per scontato il fatto di rivolgersi ad un pubblico provvisto di sensibilità. E’ un avviso ottimista, in fondo.
Le esecuzioni dell’Isis, le teste mozzate, i corpi sventrati dalle bombe, i bambini morti tutti in fila, uccisi dalle armi chimiche del dittatore. Sangue e distruzione ovunque, in un crescendo che pare non aver fine. Un groviglio politico, culturale, religioso ed economico di cui nessuno sembra voler tirare, veramente le fila. Il regime bombarda gli ospedali, le scuole, i mercati. Lì dove la gente si riunisce, ancora, nell’eroica ricerca di normalità, piomba impietosa la morte violenta, la polvere, il sibilo delle bombe. Macerie su macerie a formare cumuli di nulla: pure la disperazione si frantuma e si deposita ai bordi delle strade simile a materiale di scarto.
Da questo nulla che tutti ci interpella e verso il quale siamo responsabili, oggi è venuto fuori il corpo in vita di un neonato. Come dall’utero della madre, il piccolo, vivo di nuovo, è uscito dal buio e dal fuoco, incredibilmente indenne. Sono rimasta a guardare questa foto per alcuni lunghissimi minuti, cercando di capire cosa turbasse, pur in assenza di sangue e corpi in brandelli, la mia sensibilità. Forse l’espressione di quell’uomo che tiene in braccio il piccolo come la cosa più preziosa che le sue mani possano contenere? Forse lo sguardo smarrito di chi si guarda intorno senza trovare un luogo sicuro nel quale custodire la vita? Forse il fatto che il bambino dorma, del tutto ignaro di esser nato all’inferno? O forse il dubbio che il bambino possa riuscire a diventare adulto, a vivere quella vita che uomini potenti e popoli pavidi gli stanno portando via?
Se questa foto rappresenta ciò che resta della Siria, allora vale ancora la pena sperare per la libertà di un popolo sacrificato sull’altare di questo mondo meschino. Io cambierei l’avviso e scriverei così: “ATTENZIONE! Speriamo che le immagini che seguono possano davvero turbare la vostra sensibilità e muovere i vostri cuori all’azione, la vita intera alla compassione”.
“Un giorno ci sarà una grande festa alla quale parteciperanno i bambini diventati adulti e gli adulti ridiventati bambini. Sarà una festa su tutta la Terra Santa, come la chiamano i cristiani; Benedetta, la proclamano i musulmani; Promessa, la sperano gli ebrei. Dall’Hermon a Gaza, da Tiberiade al Negev, dal mare al fiume, da Gerusalemme a Hebron, a Ramallah, a Nazareth… Il muro verrà abbattuto e non si saprà più dov’era prima. Le vie di acquartieramento delle colonie saranno viali e i reticolati siepi fiorite.
Ismaele abbraccerà Isacco e questi bagnerà di lacrime di gioia il petto di suo fratello. Si terranno per mano e si siederanno insieme vicino alla tomba di Abramo, dalla quale scaturirà un canto di lode, un inno di giubilo. Solo l’amore esclusivo per la casa del Signore, l’Amico degli uomini, abiterà il cuore di Sara e solo le lacrime di gioia e di consolazione solcheranno le guance di Agar. L’ospitalità reciproca sarà la legge del paese. I matrimoni misti diventeranno innumerevoli. I bambini giocheranno insieme, non si lanceranno più né pietre né insulti, non li capiranno neanche più, né in arabo né in ebraico. A Gaza si sentirà giurare per il Dio di Mosè e a Tel Aviv per quello di Muhammad. Chi ritorna dalla Mecca incontrerà chi scende da Gerusalemme, gli abitanti del mondo intero esclameranno: Guardate come si amano!
Anche i discepoli del Nazareno avranno deposto l’orgoglio e si saranno messi a servizio dei pellegrini: Li accompagneranno lodando Dio in Spirito e verità. Le ossa dei suicidi e dei martiri saranno lavate dal perdono, gli assassini soccomberanno alla contrizione e tutti rinasceranno nell’unico abbraccio del Padre”.
(da “Collera e luce” di Paolo Dall’Oglio)