C’era una volta, in mezzo al mare, al centro della pancia del mondo, una terra triangolare. Una terra antica e incantata. Questo triangolo di roccia e sabbia, terra fertile e pianure proveniva dal fondo del mare. Dagli abissi vedeva luccicare sulla superficie una luce irresistibile, splendente, come un richiamo di voci magiche, come uno scintillare di vita esagerata. Il triangolo non riuscì a resistere e con grande sforzo e intenso dolore si staccò dal resto della terra nel fondo del mare e con stupore e timore e incontenibile felicità si affacciò in superficie.
Sale, sole, vento, nuvole e pioggia, estate e inverno! Il triangolo si copri di piante e di verde, di fiori colorati, di frutti spinosi e succosi, di animali veloci. Oh, la sua gioia era così grande che la faceva tremar tutta, sentiva il fuoco dell’esistenza scuoterla da cima a fondo.
Un giorno assistette, incredula, al morire quotidiano del sole. Come credere vero e possibile quell’abbraccio di vita e morte?! Come poteva l’inabissarsi della luce, dar vita a tanta bellezza? Il sole calava, giù e ancora giù, sulla linea di confine del mare e tutto era avvolto dal silenzio. Era così commossa la terra triangolare che pianse lacrime di fuoco e le sue lacrime vennero in superficie formando un cratere, potente e di inusuale bellezza.
In tutto il mondo si sparse la fama di questo abisso di mare venuto alla luce e gli uomini fecero a gara tra loro per potervi abitare. La terra sorrideva nel vedere sulla sua pelle quell’avvicendarsi di volti diversi, lingue dai mille suoni, culture multiformi. La gente che cominciò ad abitarla aveva tante facce, frutto felice di fantasiosi innesti. La terra era così bella che tutti gli abitanti non poterono che divenir poeti e narratori, artisti, cavalieri ed eroi.
Ma la bellezza della terra triangolare cominciò a far gola anche al terribile drago che si nascondeva fra le crepe delle sue rocce. Il drago depose ovunque le sue uova e riempì quella terra, devastandola. Fece alleanze di morte con gli altri draghi della superficie terrestre portando morte e distruzione. Seminò fuoco e fiamme che germogliarono voraci nel cuore di molti abitanti. Il respiro dei draghi provocava fumi tossici che avvelenavano i frutti succosi della terra. Molti dei visi felici d’incontri meticci divennero tristi e il triangolo di terra si sentiva risucchiare nelle profondità buie del mare. Molti uomini e donne lottarono coraggiosi contro il drago e i suoi alleati e morirono bruciati e soli al crepitar furioso delle loro fiamme.
Ciò che il drago non sapeva, però, era proprio che la cenere di quegli uomini e di quelle donne ricadeva sulla terra rendendola fertile e leggera. E così, chi tra gli abitanti non abbondonò la speranza di sconfiggere il drago, si accorse del fecondo e spontaneo germogliare di quelle ceneri. In silenzio e con molta fatica mischiarono ad esse il sudore del loro lavoro e la terra si ricoprì di nuovi fiori. I draghi totalmente inebriati della loro potenza non abbassavano neppure lo sguardo su quei piccoli lavoratori, sulle loro zappe e sul loro sudore, così impegnati com’erano a guardarsi gli uni gli altri per sfidarsi e dimostrare la supremazia della loro forza.
Gli uomini e le donne continuarono a lavorare, notte e giorno, i fiori cominciarono a crescere, a moltiplicarsi e a rivestire il triangolo di terra come di un abito da sposa. Al veder tanto candore delle piccole e silenziose creature chiamate Farfalle, cominciarono a migrare verso quella terra di sole e di sale. Con le loro piccole ali colorate affrontorono viaggi lunghi e pericolosi per potersi nutrire di quei fiori di cenere e sudore. Arrivarono a milioni. Volavano basse e silenziose, si moltiplicarono dando alla terra un fremito continuo di metamorfosi. Volavano basse, si, e i draghi alti e possenti non si accorsero della loro presenza, fino a quando divennero così tante le Farfalle da circondare completamente i draghi fino al ventre. Con il loro timido e veloce batter d’ali provocarono un intenso solletico ai piedi e alla pancia dei draghi, così intenso e così continuo che i draghi non riuscirono a resistere. Solleticati in ogni dove da quelle ali d’aria persero l’equilibrio e rovinarono giù, chi fra le crepe infuocate della terra chi nel fondo del mare profondo. Cadderò tutti e non ne sopravvisse neppure uno!
Il triangolo di terra si sentì riemergergere, respirò forte e si abbandonò a insperati sorrisi. Le Farfalle restarono per sempre sulla sua pelle e il profumo dei fiori si diffuse su tutto quel mare d’intenso blu al centro della pancia del mondo.
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E poi spirisci
Ma cu si tu, occhi niuri,
funnu mistiriusu di biddizza.
Calamita ca mi scippa lu cori
di lu pettu, pi fallu scinniri
dintra lu pozzu ca si tu.
E poi, però, t’ammucci e ti nni vai
e sugnu sula, dijuna di li to paroli
ca mi danno forza e ciatu.
Ma cu si tu,
ca comu faru t’affacci
comu un mago addumi u mari di faiddi,
ca sugnu io lu mari sinza lustru di luna,
sinza stiddi.
E comu un ciuri di campu
a spiranza mi germogghia nta l’ossa
e poi spirisci.
E secca lu sangu nta li vini
e lu cori chiù un s’abbivira.
Ma cu si tu,
unna nta la riva
c’arrivi e m’arrifirschi di l’arsura
e t’arritiri
e un ti pozzu taliari
e ieccu li me mani e strinciu li pugna,
ma tu t’ammucci e un ti fai pigghiari.
Ci su i ciuri in funnu u mari
– Io, mi chiamu Illuminata.
– Io mi chiamu, Luciu.
– E c’è u mari unni stai tu?
– Se! E ci su i pisci! E quannu c’è a luna china, cantanu.
– Lucio era un cummidianti! Quannu ci virìa ci iava sempri a vidillu. Ma pure l’orbi u virianu a Luciu! Era na festa.. Poi iu chiuria l’occhi e u sintia: “Illuminata, Illuminata, Illuminata, illuminata! Vuccuza ruci…occhi ri fata! Na canzuni d’amuri iu ti vulissi cantari, ma tu un mi senti ed io ti ti pozzu sulu taliari”. Lucio era innamuratu ra luna. Ma era lariu, era sciancatu, immurutu, aveva un brazzu sulu…e a luna unnu vuosi! Na notti si misi na varca e sinniu in mezzu u mari e un turnò, chiù.
– Chistu è u mari!
– Chi granni! Un finisci mai…
– Finisci unni finisci u cielu!
– Chi ciauru!
– Ci su i ciuri in funnu u mari… Si unu cari a mari, si vagna! U mari e comu l’acqua!-
– Cu è chiddu na varca?
– Luciu! E’ innamuratu ra luna e a voli iri a truvari.
– E picchì firrìa sempri intunnu?
– Avi un vrazzu sulu! Mischinu!
– Mischinu! E comu fa a rimari!
da Lucio di Franco Scaldati
Sutta Terra
“S”, nella tavola periodica indica lo zolfo. Sulfur in latino, Sufra in arabo, in siciliano Surfaro. U surfaro per la Sicilia è odore forte che protegge le viti, che colora le foglie e custodisce l’uva buona. Ma è anche sfruttamento e violenza, il dolore di chi lavorava tra i cunicoli delle miniere ad esplorare l’inferno. Al buio, nudi e mezzi morti, eppure tanto disperati e forti da portare sopra le spalle il peso dello zolfo e di una vita senza futuro. Uomini fin da 7, 10, 12 anni.
L’esperienza lo dice, la letteratura lo racconta, la tradizione lo insegna: con la morte si convive cantando. E così i minatori sotto terra, i contadini sotto il sole, cantano, compongono melodie, a sostegno della vita, per corteggiare il destino e sopportare il sudore e i sopprusi dei padroni.
Sembra la descrizione di un tempo lontano, di vicende passate, oggi, qui, adesso, dove la terra si coltiva giocando su facebook e le miniere fanno sentire solo l’eco lontana della loro presenza. Tutto questo, invece, ci appartiene, ancora, quella fatica, quel destino, il sudore e le melodie che sostengono la vita. Si può scegliere: sganciarsi dalla storia o mettersi a scavare, a mani nude, per ritrovar le radici e fare nuovi innesti e desiderare nuovi frutti.
È la decisione presa dai Pupi di Surfaro, band di San Cataldo, composta da giovani musicisti. Dal 2006 i Pupi di Surfaro si son messi alla ricerca della tradizione a cui sanno di appartenere.e qualche giorno fa ho incontrato Salvatore Nocera, voce dei Pupi di Surfaro e autore delle musiche e dei testi e ho deciso di consegnare questo incontro alle pagine accoglienti di Eufemia.
Dalle radici, da lì abbiamo iniziato. Metafora abusata, forse, ma, se usata in assenza di retorica, immagine ancora capace di descrivere con potenza la realtà. La composizione dei testi e delle musiche dei Pupi di Surfaro prende vita attraverso tre fasi di un unico processo: ricerca, studio, elaborazione personale.
La ricerca nasce dalla curiosità, dal desiderio, dalla consapevolezza di non poter essere realmente se non attraverso la conoscenza di ciò che sta dietro di noi, sotto di noi, ciò che ci sostiene, il terreno dal quale siamo emersi, germogliati, nel quale cresciamo. Ma questa curiosità ha bisogno di studio, della lenta assimilazione del patrimonio della cultura siciliana e di tutto sud.
“Ho cominciato ad interessarmi di musica popolare, tradizionale, facendola e facendola malissimo e, dunque, rendendomi conto della necessità di studiare, di lavorare, di approfondire vari livelli e vari ambiti dello stesso settore. Così, piano piano, i Pupi di Surfaro sono cresciuti“. La terza fase è l’elaborazione, quel momento nel quale ciò che si è studiato, ricercato, desiderato, assimilato deve venir fuori, trasformato e nuovo: “L‘impegno artistico proiettato verso il futuro non decolla se non si conosce cosa ci ha preceduto, cosa abbiamo dietro” – spiega Salvatore Nocera.
“Un albero – continua – se ha radici forti cresce folto. Potandolo, curandolo, lo si può indirizzare verso mille direzioni, ma non si può tagliare il tronco e portare la chioma da un’altra parte, perchè l’albero muore e non porta frutto“.
L’ispirazione, croce e delizia di ogni artista, non è, dunque, esclusivamente qualcosa che ti viene a cercare, quel sentimento, quell’emozione, quel pensiero che, in quanto artista, appunto, si è in grado di riconoscere e di decodificare perchè tutti ne possano godere. L’isperazione vuole spesso essere cercata, scovata: “Scegliere l’argomento, individuare una storia e costruire un percorso drammaturgico. Musica e parole devono nascere insieme, la musica e l’interpretazione camminano di pari passo con la storia che si vuole raccontare“.
Ignazio Buttitta, Rosa Balistreri, Giuseppe Pitrè, Pino Veneziano, sono solo alcuni tra gli artisti siciliani ai quali i Pupi di Surfaro si ispirano. Leggendo alcuni dei testi di questi autori, ripercorrendo la loro biografia, non si può fare a meno di notare come la loro vita artistica sia strettamente legata all’impegno politico e sociale. Forse è la Sicilia che lo richiede, più di altre terre, più di altri popoli: “Per me questa unità è imprescindibile. Io quando recito, quando scrivo, quando canto sono sempre io, Salvatore Nocera, parlo di me, di quello che vedo e sento, di quello che vorrei…non lo so. Non sono un politico. Certo l’artista interpretando la realtà non può far a meno di esprimere un giudizio e il giudizio esprime già un desiderio. La volontà di incidere sulla realtà è implicita nella descrizione che della realtà stessa si fa. Mi rendo spesso conto di quanto le mie proposte siano folli. E però, mi piace pensare che proprio la mia follia possa essere concreta ed efficace“.
Sutta terra è il nuovo album dei Pupi di Surfaro. In questo disco che rappresenta la volontà di “fare sul serio” sono coinvolte diverse realtà importanti: Libera, Addio pizzo, No Muos, Musica contro le mafie. Lo sottolinea più volte Salvatore Nocera: “La cosa importante è mettere insieme la gente, collaborare, fare rete, essere uniti. I Pupi di Surfaro combattono i vincoli, i legami, le gabbie, le costrizioni mafiose, suonando e cantando, mettendoci la faccia“.
Ed è una faccia che piace al pubblico la loro. La musica dei Pupi di Surfaro coinvolge interamente chi ascolta, ne muove il corpo avvolgendolo con la musica e ne attira l’attenzione con le parole. Le canzoni sono vere e proprie storie e non ci si può e non ci si vuole distrarre, fino alla fine. Si balla e si pensa, si ascolta e ci si interroga. Daniele Grasso lo ha capito, e ha deciso di promuoevere attraverso la Dcave records il lavoro dei Pupi di Surfaro adesso che il loro frutto comincia a maturare.
Salvatore Nocera ed io diamo forma al nostro incontro utilizzando domande e risposte, parole, silenzio, riflessioni e dubbi. Ci interroghiamo, inevitabilmente, sull’identità dell’artista: “L’artista ha un ruolo fondamentale nella società. Messo all’angolo dai poteri forti cerca di far scricchiolare le certezze. La nostra società si fonda su certezze, su sicurezze finte. Finte, semplicemente perchè le certezze non esistono. E allora perchè continuare a ricercarle? Perchè continuare a basare la nostra vita su di esse? Il compito dell’artista è insinuare dubbi. Scava, l’artista, cerca di andare in profondità e si accorge che la realtà, profonda, non corrisponde quasi mai alla realtà visibile, quella alla quale tutti cercano di aggrapparsi. Questa incongruenza crea già un certo senso di disadattamento“.
Che l’artista sia, in qualche modo, un “disadattato”, lo dicono in molti. Tuttavia sono numerosi coloro che rifiutano etichette, definizioni. Eppure quando è l’esperienza ad essere condivisa, realtà e luogo comune si fondono, al di là di ogni ribellione e volontà: “L‘artista è un disadattato perchè manda a fanculo il mondo ogni giorno e però si rende conto che di quel mondo ha bisogno. É sempre quello che fa fatica ad accettare l’altro, ma, allo stesso tempo, dell’altro, non può farne a meno. Io sul palco ho scoperto e ritrovato il mio spazio. Se non avessi fatto l’artista sarei diventato eremita o vagabando o carcerato, cioè non sarei riuscito a stare in mezzo alla gente in modo normale. L’arte, il palcoscenico, lo spettacolo mi permette di istaurare una relazione con gli altri che non avviene a livello razionale, intellettivo, ma emozionale. Artista è colui che non riesce ad istaurare un rapporto affettivo vero se non attraverso la propria arte. E fa, paradossalmente davanti a centinaia di persone, con centinaia di persone, quello che non riesce a vivere nella vita quotidiana“.
I Pupi di Surfaro sono uno tra i numerosi buoni frutti che il rinnovato fermento culturale dell’isola sta producendo. In modo costante e silenzioso la Sicilia continua ad esercitare sul mondo un forte potere di attrazione: affascina, innamora, sa strordire e distruggere, ma anche custodire ed esaltare. La fiducia è un sentimento che i siciliani nutrono con pudore. Eppure quasta vita artistica che nel grembo della Sicilia si muove e la mantiene viva, nonostante tutto, alla fiducia mi costringe perchè è anche la mia vita di scrittrice ad essere in gioco: “La forza degli artisti siciliani sta nella loro capacità di innestarsi alle radici della tradizione dando vita però, a qualcosa di nuovo, di inedito. Ciò che ci manca, ancora, è la capacità di incanalare la nostra energia su strade che conducono ad obiettivi importanti“.
I Pupi di Surfaro hanno vinto l’edizione 2013 di Musica contro le mafie con il brano “Cantu d’amuri”: una serenata alla Sicilia, ispirata alle parole e all’esperienza di Peppino Impastato.
Con le parole di Cantu d’amuri si è concluso il mio incontro con Salvatore Nocera; sono parole che ben descrivono l’amore e la rabbia, la dignità e l’identità di chi si ostina a voler esercitare l’arte, a far l’artigiano utilizzando musica e parole, la propria storia e la terra.
Vogghiu cantari no pi fari scrusciu, chiù nun s’abballa e nun si fa baccanu! Unni c’è scuri vogghiu fari lustru, sulu cantannu mi senti omu!
Rivugghiu d’acqua
M’assettu nta la rina a taliari l’unni di lu mari:
rivugghiu d’acqua che cu lu ventu fa all’ammuri.
Mi grapissi lu pettu pi ghiccarici lu cori
dintra sta raggia d’acqua e sali.
Cori marturiato comu lu mari
di ventu arriminatu,
fatti ammuttari
fatti annacari comu un nutrico
fatti ncuietari mezzu la spuma.
E poi, quannu scura,
quannu u lustru n’abbanduna
torna dintra lu me pettu,
ammucciati dintra li me carni
e r’accussi u duluri
firriannu intunnu un t’attrova
e ni lassa n’anticchia respirari
l’aria nostra, di ventu, di sali.
Unni curnutu u miseru u traguardu?
Piccatu ca un c’era nuddu quannu arrivammu…però io continuava a curriri e ad arrivari urtimu. Io continuu a curriri e cu m’avi a fermari a mia! E c’haiu a rinesciri a vinciri na vota, na vota sulu. Ma un finisci mai sta cursa, unni curnutu u miseru u traguardu?
Piccolo omaggio a Franco Scaldati.
Giovanni Falcone, d’aria di sorriso e di vento
Notte, serene ombre,
culla d’aria,
mi giunge il vento se in te mi spazio,
con esso l’odore della terra
dove canta alla riva la mia gente
a vele, a nasse,
a bambini anzi l’alba desti.
Monti secchi, pianure d’erba prima
che aspetta mandrie e greggi,
m’è dentro il male vostro che mi scava
(Terra, Salvatore Quasimodo)
Fame di parole
In questi giorni è apparso su palermo.repubblica.it un articolo sul nuovo boom di analfabati tra i giovani siciliani http://palermo.repubblica.it/cronaca/2013/05/05/news/il_boom_dei_nuovi_analfabeti_un_ragazzo_su_tre_non_sa_leggere-58085888/ Prendiamo spunto da questa nuova indagine per riproporvi l’ascolto di un racconto/denuncia sulla fame di parole di cui muoiono i bambini di uno dei quartieri più poveri di Palermo: l’Albergheria e su quanti si adoperano per placare questa fame e le sue conseguenze http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-813ef6a3-d1b3-47d0-8387-511724bc05c2.html?refresh_ce