Nessun confine

Kasbah di Mazara del Vallo.

Kasbah di Mazara del Vallo.

In arabo confine si dice al hudud. L’ho imparato da poco. Ed ho capito ieri che saperlo non mi servirà a niente. Tra la Sicilia e l’Africa settentrionale il confine non esiste. Esiste una sponda, poi un tratto di mare, poi un’altra sponda.

Mi hanno spiegato che in Sicilia sono due le zolle che s’incontrano, la Sicilia è una terra mista. La val di Noto è d’Africa, il resto è d’Europa. E lì dove le due zolle provano da millenni a diventare una sola l’Etna si agita di fuoco e di potenza.
Da Mazara del Vallo la Tunisia dista 153 chilometri. Se ci fosse una strada al posto del mare potremmo andare e tornare da un altro continente in tre ore appena. Ma la strada non c’è. E noi restiamo quell’isola che spesso non vorremmo essere.

Mazara è una città bianca. E’ bianca di riflessi di luce sul mare e di intonaco fresco della Kasbah, il quartiere tunisino che da lì continua qui, sulla sponda opposta, come se fosse, compreso il mare, un’unica grande città, unita, uguale. Dove le sue stradine s’intrecciano e non arriva il frastuono del traffico i sussurri si amplificano come in passato le voci degli uomini antichi. Sui muri ogni ceramica racconta una storia di incontri, di colori, di vita condivisa tra le due sponde, fra innesti riusciti e conquiste di sangue. Non è facile la pace. E Mazara prova a dirlo in ogni modo possibile.

Per strada, di tanto in tanto, s’incontrano ragazzine adolescenti di lingua araba. Parlano velocemente, muovendo le mani e gli occhi come fanno le ragazze, mettendoci dentro tutta la vita in eccesso che portano in corpo e che cade al passaggio, come scia di terra verdeggiante. Sono gesti familiari in una lingua simile ma diversa, come ascoltare la propria voce senza capirne a fondo significato e suono. Io ho sorriso più volte, per quella mia pelle scura come la loro. I compagni a scuola mi prendevano in giro, perché sembravo tornare dal mare d’estate anche se era dicembre: “Ma chi sì tuicca?” (“Ma che sei turca?”), mi dicevano. Ma senza farmi male, perché io avevo la pelle di papà e tanto mi bastava per sentirmi al sicuro. Mamma, poi, mi spiegava che noi, i siciliani, siamo mescolati con il sangue degli arabi e io mi sentivo meticcia e felice.

Sul Porto Canale i pescherecci che restano sono il piccolo resto di un passato ben più glorioso. Li ha inghiottiti il mal governo, più feroce del mare in tempesta. La tempesta è nella sua natura e il mare la scatena senza poterne fare a meno; la mala politica, invece, tradisce se stessa e i diritti degli uomini che abbandona alla fame. Sembrava triste il porto così enorme, vuoto e fermo; la ruggine del rimorchiatore, le reti ammucchiate a prua, le vernici scrostate a cancellare i nomi delle imbarcazioni e le speranze di pesca. Sembrava una solenne cattedrale abbandonata dai fedeli e dai canti di gioia. Bellissima però, sempre e ancora bellissima.

Piazza della Repubblica, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Piazza della Repubblica, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

La piazza di Mazara è un incanto: i palazzi hanno lo stesso colore della sabbia e le cupole sono verde smeraldo e brillano di sole. E’ ampia e mi è sembrata solida e festiva, anche se deserta e silenziosa. I bar  vendono i “vuccunieddi”, bocconi di pasta di mandorla ripieni di cedrata e avvolti nella carta d’argento, per farli luccicare forse, come il mare o come le cupole. A me sono sembrati morbidi e buoni, una metafora della città, che è bella, ma a “bocconi” piccoli, perché appena fuori dal centro storico la periferia ha lo squallore di troppe identità tradite.

Ho pranzato sulla spiaggia di Capo Feto, un’oasi naturale di pantani e fenicotteri bianchi chinati a cercar cibo. Piccole dune di sabbia cambiano col vento, ovunque le poseidonie spiaggiate a migliaia e di fronte a me il mar Mediterraneo. L’ho guardato a lungo, calmo e blu con il suo orizzonte mutevole e nessun confine. A guardarlo, però, ci vuol coraggio, perché quel mare non è il Tirreno che bagna Palermo e guarda a nord, quello è il canale di Sicilia, il custode severo dei morti a migliaia.
Solo 153 chilometri. Se fossi nata tre ore più a Sud, adesso, forse, sarei tra le donne che portano avanti la rivoluzione dei paesi arabi, sarei impegnata a rivendicare insieme al mio popolo, quel che un centinaio di chilometri più su, invece, si va perdendo senza troppa consapevolezza o grande dolore.

Riserva Capo Feto, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Riserva Capo Feto, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

A Mazara si mescolano la malinconia e la speranza che le città di mare possiedono, abituate come sono alle partenze, alle attese, allo strazio per chi non fa ritorno. Costrette ad imparare i segnali del mare e del cielo e pazienti di racconti, di avventure spaventose, di incontri straordinari, di avvistamenti fiabeschi. Dal mare viene il cibo e la benedizione della vita, dal mare i nemici e la distruzione e sul mare la paura della morte fino alla pazzia.

Prima di rientrare ho reso omaggio al satiro danzante, questa volta l’armonia delle sue forme l’ho vissuta come un augurio e quel volteggiare che l’assenza di braccia, di una gamba e l’immobilità della statua non riescono a celare mi è parso indicasse un segreto di vita, una strada sapiente da trovare ancora.

Satiro danzante, Museo del Satiro, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Satiro danzante, Museo del Satiro, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Secondo la Bibbia esiste una strada nel mare, la mostra Dio al suo popolo per salvarli dalla morte certa, dall’esercito nemico ormai alle spalle e dalla schiavitù del faraone.
Mi piace pensare che dalle coste di Mazara, la città bianca, una strada possa essere trovata da uomini giusti, per salvare anche oggi dalla schiavitù e offrire scampo agli oppressi. Non esiste motivo perché così non accada, tra noi e loro… nessun confine:
…che leggi più eque rendano amiche le acque delle opposte sponde l’africana e l’europea, nel nome del Dio universale, Padre di tutte le genti, cristiane ed islamiche, facendone un solo mare libero al lavoro, fecondo di pace.

(da un’iscrizione affissa in via san Giovanni)

 

D’autunno

img_20161119_221658

I Faggi che sono in Sicilia sono figli dell’ultima glaciazione. Quando i ghiacci si sono ritirati, loro sono rimasti in questa Trinacria circondata dal mare. Son rimasti abbarbicati e maestosi a ricoprire le rocce più alte dove il freddo dell’isola si concentra e si difende dall’aria di mare. Se vengono tagliati non ricrescono più. Se muoiono nessun altro Faggio prenderà il loro posto.

Io non lo sapevo, l’ho imparato ieri, fra le curve delle montagne madonite, durante una gita quasi improvvisata alla ricerca dell’autunno. L’uomo che mi vuol bene mi ha portata via dalla città, perché, a volte, le grandi città sono il luogo più stretto e soffocante dove vivere. Siamo andati in cerca di spazi senza artifizio, dove ogni cosa occupa il suo naturale ambiente di sopravvivenza e dove il tempo che passa è un ciclo che fa nascere e morire continuamente, senza lutto, senza dolore.

Mi pareva fosse visibile dietro di noi una scia: man mano che abbandonavamo la valle ci lasciavamo dietro preoccupazioni, stanchezze, pensieri, grovigli difficili da sciogliere. In auto abbiamo ascoltato Live From Madison Square Garden di Eric Clapton e Steve Winwood (http://www.deezer.com/album/339209) e mentre lui guidava io leggevo ad alta voce alcune pagine di My generation di Igort, un libro che è un’immersione nella musica, nella cultura e nel dramma degli anni’70 (http://www.chiarelettere.it/libro/narrazioni/my-generation-9788861908536.php).
Pioveva. Il cielo era grigio. Il mare era piatto. Io indossavo un maglione blu. Lui era bellissimo.

Prima il mare, poi la campagna, poi la montagna. Tutto percorrendo cento chilometri appena. Lungo la strada mutavano i colori, la temperatura scendeva, il silenzio ricopriva ogni cosa. L’unica voce era quella del vento. Ci siamo fermati a fotografare gli alberi accesi di arancio, uno in particolare, proprio sulla strada, sembrava il roveto ardente dal quale Dio parlò a Mosè rivelandogli che proprio lui, fuggitivo e balbuziente, avrebbe potuto sfidare il faraone d’Egitto e liberare gli ebrei dalla schiavitù.

img-20161119-wa0009

Avevo freddo, ma sono rimasta sotto la chioma a vedere le foglie tremare, staccarsi, cadere e piovermi addosso come pioggia luminosa.

img_20161119_221914

I bordi delle strade erano pure ricoperti d’autunno: milioni di foglie morenti adagiate sfinite, ma fiere di aver portato a termine il proprio compito. Fino a qualche anno addietro io odiavo la “fine”, qualunque fosse la sua declinazione e pure l’autunno mi stava stretto per quella privazione di luce che mi sembrava sempre improvvisa ed ingiusta.

img_20161119_221403

Adesso non è più così. Adesso la “fine” delle cose, mi consola. Non mi sembra facile né indolore, semplicemente la sento necessaria perché tutto si possa rinnovare. E pure il buio mi è meno ostile: c’è bisogno che l’oscurità avvolga le cose, come i bulbi  dei fiori che per germogliare restano nascosti e muti fino al tempo opportuno. Ecco, l’autunno è diventato per me il tempo opportuno, per lasciar andare ciò che ha bisogno di morire e attendere ciò che fiorirà non appena sarà pronto a farlo.

Abbiamo raggiunto Piano Battaglia (http://www.pianobattaglia.it/), restando a bocca aperta ad ogni curva. Poi siamo scesi, di nuovo, in mezzo al fango, alla pioggia e al freddo, per rendere omaggio ai due “Patriarchi”, i grandi Faggi che da secoli sorvegliano la vallata. Quando la pioggia è diventata battente abbiamo bussato al Ristoro dello scoiattolo (https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g1081305-d7081880-i193122211-Il_Ristoro_dello_Scoiattolo Petralia_Sottana_Province_of_Palermo_Sicily.html), e una gentile signora dagli occhi chiari ha apparecchiato per noi, unici clienti della giornata uggiosa, vicino al camino appena acceso. Erano le due del pomeriggio, fuori c’erano 6 C°, ma la signora non aveva dubbi: “Ancora non fa freddo”. Abbiamo mangiato, parlato, scambiato le idee e immaginato cose. La signora si è fermata con noi per il caffè  e ci ha raccontato dell’acquisto di una villa adiacente e del progetto di creare trenta posti letto. Le brillavano gli occhi.
Allora ho pensato che è bello fare progetti e pure provare a realizzarli. Forse bisogna sempre, però, mantenere vigile il senso dell’autunno e sapere che a nessuna cosa e a nessuna relazione, comprese quelle primarie, ci si può attaccare come non dovessero finire mai, perché le foglie si staccano dall’albero, al momento opportuno, e cadono.

img_20161120_084729

Sulla strada del ritorno, ci siamo fermati ancora, questa volta per fotografare alla nostra sinistra un gregge di Faggi, tutti fitti e vicini, pronti ad addormentarsi per l’inverno, color fuoco, bellissimi. Alla nostra destra, invece, incredibilmente, c’era il mare. Enorme, solitario, e blu.

img_20161119_220807

Ho amato la mia terra per la sua bellezza e odiato il popolo cui appartengo per la sua stoltezza, per quella cecità criminale volta a distruggere e umiliare un patrimonio unico al mondo, per ignoranza e pigrizia e per quell’animo sottomesso al prevaricatore di turno che si pensa di raggirare, mai di affrontare, con una furbizia viscida e prepotente, vandalizzando ogni cosa. Ma non volevamo essere tristi o arrabbiati tornando a casa. Abbiamo accolto le notizie del bombardamento ininterrotto su Aleppo est e sui suoi ospedali con profondo sdegno e lottando contro un ineluttabile senso di rassegnazione. Ci ha aiutati a farlo una luce proveniente dal sole oramai al di sotto delle nuvole più scure, una luce abbagliante, pulita. Era un incanto.

Si compiono viaggi importanti, anche percorrendo pochi chilometri e nel giro di alcune ore, sono viaggi personalissimi alla ricerca di qualcosa che difficilmente riusciamo a definire, ma che la ciclicità vitale della natura e del mondo ci permette di riconoscere. I cicli della vita non ripercorrono sempre un’unica strada, non sono la ripresentazione di cose già accadute, così mi pare di capire. Ogni ciclo ci spinge in avanti verso qualcosa di nuovo che possiamo aspettare, desiderare, veder accadere:

Il sole sorge, il sole tramonta;
si alza e corre verso il luogo
da dove rispunterà di nuovo.
Il vento soffia ora dal nord ora dal sud,
gira e rigira, va e ritorna di nuovo.
Tutti i fiumi vanno nel mare,
ma il mare non è mai pieno.
E l’acqua continua a scorrere
dalle sorgenti dove nascono i fiumi.
Tutte le cose sono in continuo movimento,
non si finirebbe mai di elencarle.
Eppure gli occhi non si stancano di vedere
né gli orecchi di ascoltare.
(Qoelet 1, 5-8)

Sai che cosa sembra?

(Addaura, Palermo)

“Ora camminavano sotto braccio.
L’uomo portava la bicicletta con la mano sinistra e lei, la donna, era nell’altra sua mano, camminava dentro di lui, non sulla strada. […]
«Sai,» egli le disse, «che cosa sembra?»,
«Che cosa?» disse Berta.
«Che io abbia un incantesimo in te».
«E io in te. Non l’ho anch’io in te?».
«Questa è la nostra cosa».
«C’è altro fra noi?»,
«Pure sembra che ci sia altro».
«Che altro?»,
«Che io debba vederti quando sono al limite».
«Come, al limite?»
«Quando ho voglia di perdermi»”.

Elio Vittorini, Uomini e no, 1945.

Spalle al mare

12907363_264238440580984_1298464255_n

Foto di fraru.b

Qualche giorno fa sono rimasta bloccata tra i vicoli del centro storico a causa di una manifestazione, l’ennesima a Palermo.
I vicoli del centro sono stretti, in alcuni l’auto ci passa appena. Si attraversano con la sensazione di non averne il diritto: le persiane aperte per il caldo fanno intravedere le tavole apparecchiate, la televisione accesa, gli uomini in canottiera bianca, le donne con gli abiti attillati, qualunque sia la taglia di appartenenza. Non è guidare in città, è entrare nelle case della gente. L’estate del sud costringe al contatto, ci obbliga a vedere e sapere. Mentre sostavo sotto il sole cocente di fine giugno, priva di aria condizionata, ho notato alla mia destra un uomo e una donna che parlavano  in modo animato.

L’età della signora era indefinibile. Sembrava mamma, sembrava nonna, non so dire se mi apparisse vecchia pur essendo giovane, o se, essendo anziana conservasse un qualche scampolo prepotente di gioventù. So che per metà i capelli erano grigi e per l’altra metà di un castano meticcio. Era bassa e molto grassa, ma gli occhi erano vispi e grandi, ingenui, quasi. In braccio teneva un bambino di circa tre anni, biondo e monello. Non parlava il bambino. Si lamentava. E mentre la signora si intratteneva in un dialogo serrato con il vicino di casa, “u picciriddu” cercava di arrampicarsi sul corpo della donna servendosi del suo seno immenso come appoggio. Sembrava cercasse di andare oltre. Voleva scappare, scavalcare forse la vita che gli era toccata in sorte. Erano tenaci entrambi, però, perché ad ogni tentativo di fuga, la donna lo riportava giù, mille volte, ogni volta, come se non potesse stancarsi mai, come se non ci fosse altro luogo in cui andare, come se non ci fosse mondo oltre il suo seno.

L’uomo, il vicino di casa, ascoltava. Solo la donna parlava. E lo faceva con parole allungate, di forma anomala, con un dialetto fitto fitto, un po’ arabo, un po’ nostro. Raccontava di sua figlia, che “magari ora puru na tessera ciù scrivunu che è buttana! E quannu ci pari a idda a finisci ri fari a cagna”. Certo non le manda a dire la signora. Ma il fatto è che sua figlia partorisce a ciclo pressoché continuo figli senza padri. E pure il piccolo fuggiasco che portava in braccio era uno di questi: “U viri chistu, chistu vinni ca a Talassemia, che rappresenta a tipo anemia mediterranea”.

Noi a Palermo a spiegare le cose in un modo solo ci imbarazziamo, siamo a disagio. Ci pare di mentire, di dire bugie. Una stessa cosa la dobbiamo spiegare in modo diverso e per enunciare queste molteplici identità di cose e persone ed eventi ne pronunciamo il nome, la realtà che vogliamo esprimere e poi aggiungiamo “che rappresenta…”. Noi, a Palermo, lo sappiamo che le persone, le cose, gli accadimenti non hanno una sola faccia, sappiamo che niente è come appare. Noi per i quali… La Mafia è lo Stato? Oppure: La Mafia e lo Stato? Cioè: “Lo Stato che rappresenta la Mafia”, per capirci. Perché, insomma, da noi a Palermo tutto va al contrario, noi lungo la costa costruiamo le panchine che danno le spalle al mare e ci sediamo a guardare le costruzioni abusive che scaricano la fogna sulla spiaggia. Perché a noi in Sicilia la bellezza ci provoca terrore, il suo richiamo alla custodia, alla responsabilità, alla coscienza non lo possiamo sopportare. Così diciamo: “Haiu na casa a Villagrazia che rappresenta tipo na villa a mari”, appunto. Se esiste una cosa mica vuol dire che quella cosa significhi quanto chiaramente mostra di sé, ma manco per sogno! E pure per le persone è così, ovviamente. “Chistu rappresenta che è me cumpari”. La sua identità è data dal ruolo che svolge in relazione al soggetto che si esprime. E se non svolge nessun ruolo è un gran problema perché qualcuno con fare minaccioso può avvicinarsi a chiedere conto di quanto dici e fai esclamando: “Oh ma chi mi rapprisienti!?”. Già, tu, proprio tu…chi rappresenti?
Il bene non è il bene e il male non è il male. E’ dipende cosa rappresenta, cosa ci rappresenta.

Spero che il bambino biondo e monello, con la Talassemia che purtroppo non “rappresenta” la semplice anemia mediterranea, un giorno prenda bene la rincorsa e puntando con decisione e senza troppa pietà il piede sul cuore di questa terra senza verità possa trovare il suo modo di fuggire e vivere, dove le panchine guardano l’orizzonte e l’occhio non s’inganna.

Lutto

27746142105_e9bf34950f_h.jpg

Si sfaldino di cenere nera
le vostre mani assassine.
Nessuna carezza sui figli
nessun tocco d’amore.

Di carbone fumante
ogni sogno.
Orizzonte grigio, per anni.

Le fiamme divorino
di ghigno selvaggio
i moti del cuore,
in fumo i progetti
i sorrisi
gli amori.

Disperati voi di disperazione!
Colma non era già questa terra
di tutta morte e la rassegnazione?

Solo conforto dal chieder perdono,
davanti ai fiori, in ginocchio.
Misericordia dal lutto dei frutti
pietà dalle orfane spine.

 

 

 

Di dolcezza rifiorirà, la terra.

Come acqua sulla terra bruciata, questa poesia ha attraversato ieri i cuori di molti siciliani affranti. Siamo abbattuti dal fuoco e dalla prepotenza. Accecati dal fumo e dalle fiamme cerchiamo, senza fiato, di rincorrerla la giustizia, di afferrarla alle spalle, ma fugge, lei, da questa terra senz’aria, con piedi veloci di sdegno. Spazziamo via dai nostri balconi la cenere degli alberi morti e dei fichi d’India cadaveri. Le loro spine erano in fiore, e senza frutto, ora, si accasciano sul suolo grigio di tristezza.
Versi dolci, di una donna dolce. Così ancora ci salviamo noi, in questa terra senza appigli, aggrappandoci all’intelligenza integra e visionaria di donne, di uomini rimasti sani.

106219229

foto di Enzo Valenti

Lettera al figlio

Mi caro figlio, tu che sei lontano,
vedessi come è bella stamattina
questa città che a te piace e non piace,
antica aristocratica signora
sempre sporca disfatta spudorata.
Ma oggi no.
C’è Monte Pellegrino
tutto rosa, lavato dalle piogge recenti
e il sole conta i pini
e li illumina e ombreggia
uno per uno, e gli alberi e le foglie
foglia per foglia. Cantano
le finestre da vetro a vetro,
e tutto splende e brilla e il mare è azzurro
senza orizzonte come l’infinito.

Se una pioggia potesse ripulire
anche l’anima e il sole benedire
allegro una innocenza ritrovata
a questa tua città dai vermi neri
annidati nei tufi polverosi
da memorie e assassini,
e dolori e macerie e cattiverie
senza perdono né consolazione

Se potessi tornare, ritrovare
la dolcezza delle prugne di cuore,
le pomelie sui balconi dei poveri,
le canzoni delle sere d’estate
e le carezze di quest’aria mite
che oggi asciuga le lacrime
dei giovani Re di pietra ai Quattro Canti
e ai mendicanti,
in questa città di mercati e camposanti.

E guardarci negli occhi dei passanti
senza il pugnale tra i denti
e sorriderci e augurarci buona giornata
per quanto è bella questa mattinata

Grazia Cianetti

Al buio

l43-giovanni-falcone-140522174147_medium

N’arubbarru lu suli, lu suli…
Arristammu allu scuru, chi scuru!
Sicilia chianci!

Rosa Balistreri

Pantelleria. L’ultima Isola.

Siateci.

Cattura di schermata (1)

 

Fotosintesi

WP_20160419_001

Fotosintesidal greco  φώτο- [foto-], “luce”, e σύνθεσις [synthesis], “costruzione, assemblaggio”. Esiste una fotosintesi “umana”. L’ho scoperto ieri, durante una passeggiata post scuola al foro italico.

Che Palermo sia una città di eccessi in continua contraddizione, si sa. Lo sa chi la visita, da turista, per pochi giorni. I turisti lo capiscono con più chiarezza degli abitanti stanziali, perché l’essere di passaggio apre lo sguardo ad una sapienza intensa, si é tutti protesi a conoscere e capire nel minor tempo possibile e con la massima intensità.

Gli occhi di chi vive a Palermo si abituano fin dall’infanzia e reggere gli sbalzi repentini tra le tenebre e la luce. La luce negli occhi e il buio nel cuore.

WP_20160419_002

Al foro italico la luce abbaglia. C’è il mare. C’è il vento. Ci sono gli aquiloni che tremano tesi e bimbi che sgambettano instabili su gambe vergini di passi. Ci sono gli innamorati sull’erba e i podisti di ogni età alla ricerca di muscoli e salute. Ci sono gli adolescenti che sui motorini truccati della Kalsa vengono a fumare all’aria aperta, sperando che la vita sia meno tossica in riva al mare. Ci sono le donne extracomunitarie con gli abiti colorati e uomini dalla pelle scura che vendono i flaconcini per le bolle di sapone.

A passare in mezzo alla gente, con lo sguardo fisso alle gru dei cantieri navali, si raccolgono parole, come una mietitura.  E mentre un giovane che sembra Gesù, avvolto nel foulard della sua ragazza per proteggersi dal vento arpeggia un giro di Do, ogni frammento di conversazione sembra possedere un senso compiuto.

E’ un tacito scambio, un prendere, dare e trasformare. Come in una fotosintesi la luce innesca i processi, perché è la luce la più grande risorsa di questa città che sopravvive incredibilmente, di giorno in giorno, sotto il torchio costante di tenebre fitte fitte.

Così, le ultime parole ascoltate, come titoli di coda, pronunciate da un’adolescente dai capelli rossi, sembrano con precisione chirurgica andare a fondo nella ferita: “No, tu un c’ha cririri mai a chiddu ca ti diciunu l’autri. Tu, c’hai a esseri tu, cu l’occhi toi, tu”.

WP_20160419_003

Settembre, dovrebbe.

Così dovrebbe essere la vita
se soffia il maestrale a settembre:
priva di mura attorno
e con orizzonti che l’occhio non tiene,
dovrebbe essere a piedi scalzi a schiacciar uva
e fisarmoniche in festa,
dovrebbe essere ebbra di speranze audaci
e fuoco acceso
e membra stanche di lavoro buono.
Dovrebbe sapere di pane caldo e di legna,
di pace all’imbrunire
e tra il vento la voce amata
e acini morbidi di succo,
dovrebbe esser un sorriso lieve
che si apre
e la cesura di molte ferite.