Certe volte mi chiedo come abbia fatto a vivere per trent’anni senza leggere le poesie di Pier Paolo Pasolini. Mi domando come sia potuta arrivare a conseguire un dottorato di ricerca senza che qualcuno mi abbia chiesto: “Hai mai letto le poesie di Pasolini?”.
Quando poi l’ho fatto è stato come sbattere contro un muro procedendo ad alta, altissima velocità. Da adolescente lo osservavo da lontano, lo guardavo ma non mi avvicinavo, come si fa a quell’età con le cose “dei grandi”. Una volta chiesi a mia madre: “A te piace Pier Paolo Pasolini?”. Mia mamma mi guardò e mi rispose: “Pasolini è… troppo”. Io non domandai oltre, lei non mi spiegò.
A trent’anni ho fatto le valigie e sono andata a vivere a Roma, prima per frequentare un corso di tre mesi, poi per lavorare in Rai sei mesi, poi, ci sono rimasta quattro anni. Ho scritto, insegnato, camminato molto, mangiato poco, pianto moltissimo. Ci siamo incontrati così io e Pasolini, tra lacrime e passi.
Il mio posto preferito di Roma è Torre Argentina. La prima volta nella capitale ho dormito in una soffitta di un palazzo lì vicino. Studiavo i testi antichi seduta ad una minuscola scrivania dalla quale scorgevo una distesa infinita di tetti. Poi scendevo giù, giravo l’angolo, sentivo il rumore del tram che faceva capolinea davanti al Teatro Argentina. Il teatro aveva una facciata mal messa, decadente, bellissima. Due anni dopo, qualche scellerato ha deciso di metterla a nuovo. Una follia. Prima del restauro sembrava un’anziana signora elegante: l’intonaco bianco pendeva a brandelli in più punti facendo intravedere un color ocra d’altri tempi e creando una mappa segreta di chiazze e crepe sottili. L’amavo davvero molto. Dopo il restauro ho odiato il suo luccichio nuovo di zecca e la distesa di cemento a cancellar per sempre le tracce del capolinea del tram 8.
Guardavo i gatti, la gente, la donna di colore che chiedeva l’elemosina cantando tutto il giorno con un cartello appeso al collo con su scritto: “Sono felice, aiutatemi!”. Entravo alla Feltrinelli e stavo lì per ore. Non avevo una lira da spendere in libri, quindi mi piazzavo davanti allo scaffale dei poeti, prendevo un testo, mi sedevo, leggevo. Un pomeriggio ho alzato lo sguardo e ho visto: “Trasumanar e organizzar” di Pier Paolo Pasolini. Ho preso il libro. Mi son seduta, ho respirato, ho aperto, ho letto:
Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo che valga una camminata senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.
Ho chiuso il testo. Sono uscita dalla libreria e non ci sono rientrata per settimane. Ho camminato per ore senza meta, tra i ponti che solcano il Tevere, i platani gialli d’autunno e l’umidità della sera. “Pier Paolo Pasolini è… troppo” – soltanto questo riuscivo a pensare. Poi ho smesso di pensare. Era un pungolo nel cuore che non mi dava tregua. Volevo provare a capire cosa fosse. Ho comprato il libro. Poi un altro. Poi tutte le raccolte di poesie. Ma il pungolo è rimasto, intatto.
Leggo con difficoltà, lentamente, la prosa di Pier Paolo Pasolini, i film non riesco a reggerli. Non conosco poesie a memoria. Imparo soltanto singoli versi con tutta la lentezza che richiede: Una nera rabbia di poesia nel petto.
(http://www.eufemiaframmenti.it/2013/05/12/frammento-alla-morte/)
Non amo i film che lo raccontano. Quel che vedo rappresentato non corrisponde a quel che io so, a quanto provo per lui. Di andare ad Ostia dove lo hanno massacrato per la paura che incuteva all’animo meschino dei falsi e degli ingiusti, non ho avuto mai il coraggio. Spesso però mi addentravo tra le vie di Testaccio, e lo cercavo. Anche se oramai era tutto troppo diverso da quello che i suoi occhi avevano visto, da quanto il suo cuore aveva amato. Restavo, allora, a fissare il Gazometro nella luce del tramonto che a Roma è sempre l’annuncio di un compimento.
Un pomeriggio di giugno, il giorno del mio compleanno, sono andata a visitare una mostra che lo riguardava al Palazzo delle Esposizioni. Sono rimasta fino alla chiusura. Ho letto le pagine di diario, i dattiloscritti, ho guardato le fotografie. Ho imparato a memoria i tratti della sua grafia e quelli dei disegni. Ho osservato le foto, quegli zigomi così pronunciati in una faccia che sembrava di cartapesta. Ho odiato sua madre perché mi sembrava fosse responsabile delle sue disgrazie, anche se non saprei spiegare perché. Ho appuntato tutte le parole che sollecitavano il pungolo nel cuore su un taccuino dalla copertina in pelle regalatomi da un uomo troppo ferito e troppo lontano da se stesso per essere amato.
Fuggii con mia madre, una valigia e un po’ di gioia che risultarono false su un treno lento come un merci, per la pianura friulana coperta da un leggero strato di neve. Andavamo verso Roma. Ho vissuto quella pagina di romanzo, l’unica della mia vita: per il resto – che volete – sono vissuto dentro ad una lirica come ogni ossesso.
Ha vissuto senza evitare il suo tormento. Senza distrarsi un attimo da esso. Ha puntato gli occhi sulla miseria umana che gli abitava in corpo e l’ha cercata ovunque fosse possibile trovarla. Ha attraversato la disperazione, cercando dappertutto ogni felicità. Ma è rimasto solo, fino alla morte perché nessuno era in grado di fargli compagnia.
Adulto? Mai, mai! Come l’esistenza che non matura, resta sempre acerba, di splendido giorno in splendido giorno. Io non posso che restare fedele alla monotonia del mistero. Ecco perché nella felicità non mi sono abbandonato, ecco perché nell’ansia della mia colpa non mi ha toccato un rimorso vero. Pari, sempre pari come l’inespresso, all’origine di quello che sono.
Da quel pomeriggio alla Feltrinelli di Torre Argentina, Pier Paolo Pasolini abita in me come una ferita dal significato introvabile. Il suo “troppo” sarà per sempre impenetrabile. Gli studiosi che parlano di lui, che sanno di lui, che scrivono di lui, mi fanno sorridere. Mi pare che lui li beffi sempre, continuamente, senza che essi ne abbiano mai reale coscienza.
Lo scorso novembre ho visitato, sempre a Roma, una piccola mostra che esponeva gli oggetti che aveva addosso e in auto la notte in cui è stato ucciso.
Ho visto il suo sangue.
Allora mi sono ricordata di una strofa che avevo imparato a memoria, leggendola davanti al Cristo crocifisso della Chiesa del Gesù.
Noi staremo offerti sulla croce,
alla gogna, tra le pupille
limpide di gioia feroce,
scoprendo all’ironia le stille
del sangue dal petto ai ginocchi,
miti, ridicoli, tremando
d’intelletto e passione nel gioco
del cuore arso dal suo fuoco,
per testimoniare lo scandalo.
A margine di un disegno senza data scriveva: Il mondo non mi vuole più, e non lo sa.
Mi è sembrata la più precisa e coraggiosa definizione della sua vita.
Che cosa abbia avuto a che fare Pier Paolo Pasolini con la nostra storia, con questo paese che isola e uccide i profeti come un tempo faceva Gerusalemme, io non so capirlo.
Ma forse i poeti hanno a che fare soltanto con la vita di chi li legge e ne custodisce le parole costate loro così care. E la ricerca del senso di quelle parole, per chi le trova, tiene in vita, generazione dopo generazione, lo spirito dei giusti massacrati dove l’umanità misera si infrange e dove l’odore del mare è come uno schiaffo.
(https://www.youtube.com/watch?v=d8CTJbYqOaE)