(foto di Alberto Tozzi)
Ti scrivo ogni sera, da quasi vent’anni.
Nessuno lo sospetta, una donna non scrive.
Mi pensano intenta a filare la tela per Laerte, impegnata a far cose consone alla mia condizione di donna e di regina. Se solo qualcuno tra quanti mi circonda fosse veramente interessato a me, si sarebbe reso conto che per filare, sfilare e rifare mi bastano ormai poche ore al giorno, dopo tanti anni si diventa esperti nei movimenti sempre uguali a se stessi. Mi guardano con desiderio i Proci, ma nessuno realmente possiede occhi per me. Il loro sguardo è avido, nel mio corpo riflettono la propria immagine, una virilità dal sapore dolciastro di vino, unta come il grasso delle bestie che divorano con morsi ingordi.
Ti scrivo ogni sera, per nostalgia, per amore e per rabbia. La nostalgia dei tuoi occhi, l’amore per te, per la tua vita, per il tuo corpo e per la tua anima profonda come il mare sul quale ti aggiri vagabondo, la rabbia per la tua esistenza libera, per le avventure, per la possibilità di scegliere, per il pericolo sfidato a duello ogni giorno, per la tua barba incrostata di sale. A volte mi assale il terrore, quando non riesco a ricomporre, con la perfezione che vorrei, i tratti del tuo viso; ad ogni tramonto, con il sole, perdevo un po’ della nitidezza con la quale ho provato e provo a ricordarti, e se non ti ho perduto del tutto è stato perché ti ho visto rinascere e crescere ogni giorno sulla faccia di Telemaco. Se solo avessi più coraggio, se solo fossi io per prima libera dal ruolo al quale tutti mi condannano, sarei capace di elaborare un piano per liberarmi dai Proci che invadono la nostra casa e che mi rubano la vita. Certi giorni sento dentro di me la forza necessaria a compiere la strage: li abbatterei uno ad uno con la precisione di un arciere. Saresti fiero e invidioso per la lucidità con la quale ad ognuno strapperei il cuore dal petto, sempre che gli dei abbiano donato a queste belve un cuore di uomini! Si Ulisse, amore mio, li abbatterei tutti come alberi nella foresta e di rabbia e voglia di vivere me ne resterebbe a sufficienza per imbarcarmi alla ricerca di te.
Quando qualche forestiero si ferma ad Itaca in cerca di ristoro e racconta alcune delle tue gesta, lascio alla gioia libertà di invadermi il cuore di quella felicità che piove copiosa sulla speranza dei vivi in attesa, la felicità di avere notizie di te, vivo. Ma poi, quando credendo di non essere da me ascoltati raccontano dei tuoi amori, delle figlie di dei invaghite del tuo coraggio che ti trattengono fra le loro braccia e le loro gambe di giovani ninfe, la gioia lascia posto al furore della gelosia ed io vorrei liberarmi di te come dei Proci, abbatterti senza pietà e libera da ogni legame ricostruire la mia vita, una vita di poco amore e troppa attesa. Si, vorrei lasciare Itaca, il mio popolo e i doveri di regina e confondermi tra altri popoli e altre terre dove deporre le armi dell’attesa, dove l’ombra di un passato felice non mi avvolga di paura, dove l’ansia di un futuro incerto non mi costringa ad attendere albe, all’infinito; dove esiste solo il presente e la vita che possiedo davanti agli occhi, ogni giorno.
Voi, uomini, che sfidate la morte in combattimenti senza esclusione di colpi, che rischiate la vita per un insulto o un ideale o una vendetta, come se di vita ne aveste sempre in abbondanza, come se guardare la morte negli occhi fosse solo un modo per crescere in potenza e onore, fama e coraggio! Tra voi e il sangue non c’è il ritmo e l’armonia che noi donne conosciamo, voi con il vostro corpo che muta solo dall’esterno, voi che decidete tutto e tutto distruggete, voi unica voce del potere. Le vostre ferite guariscono, i vostri tagli si rimarginano e le cicatrici sono i vostri trofei.
Ulisse mio amore e mia disgrazia, sono sicura che a tutti tu parli di me e giuri con profonda certezza che ad Itaca la tua sposa ti attende, fedele. Fai bene a giurare, Ulisse, sulla mia fedeltà, anche se ne ignori la fatica, tu…tu che neppure sospetti a quali ancore la mia fedeltà si aggrappa per resistere alle tempeste. Non al dovere Ulisse, né alla dignità di regina, non al pudore né al vincolo delle nozze, ma a me stessa Ulisse, a quello che di me vedo e scopro durante le ore infinite che trascorro nelle mie stanze, fingendo di tessere, appoggiata al telaio come fosse il timone di una nave. So viaggiare anch’io Ulisse, senza solcare nessun mare se non quello che dentro di me si agita mostrandomi terre sconosciute e paesaggi mai visti. Tu credi di sapere chi sono, ma ciò che io sono è come la sabbia che stringi nel pugno ad ogni naufragio dal quale gli dei ti risparmiano: granelli innumerevoli che scappano alla presa forte delle tue dita e che al sole luccicano, che le onde uniscono al loro passaggio e che il calore spacca, secca e separa. Io sono cose che tu non sai, possiedo volti che tu non hai mai visto.
In questi lunghi e feroci anni, la notte, dopo aver messo a letto Telemaco e atteso il russare ingordo di tutti i Proci, quando le ancelle hanno rassettato ogni cosa e gli anziani dell’isola appendono al chiodo le loro cetre, io rimango a vegliare su me stessa, a tessere la tela invisibile della mia anima, a combattere battaglie feroci con la vecchiaia che mi rapisce gli anni e la bellezza del corpo. In questo campo di battaglia io, Penelope, sono morta e tornata in vita mille volte, mutando i lineamenti di un’esistenza che per te è ormai solo un ricordo. Ulisse, uomo curioso e vagabondo, supplico gli dei che al tuo ritorno io sia per te terra ancora vergine, mistero capace di trattenerti, vicino e coinvolto. E se così non fosse, la fedeltà di cui ti sei vantato sarà quella che mi porterà lontano da te e da una vita che non può più essere mia. Tu navighi e giri il mondo, accechi i ciclopi ed espugni Troia, così cambi te stesso, così cambi me. Ed io…io vivo, vivo questo tempo di vuoto e di violenza, di povertà e dolore, Ulisse amore mio, nella speranza che la mia vita testarda possa mutare, come le onde la roccia, un giorno, anche te.