E sarà di gioia, l’ultimo canto
un sibilo affilato di luce.
E’ successo ieri sera, mentre spegnevo la luce su una giornata piena di pensieri. All’improvviso. Mi sono ricordata di una cosa vista ogni giorno per molti anni e incredibilmente dimenticata per altrettanti.
Avuta sotto gli occhi da sempre, quotidiana, ordinaria. Non ho idea di come abbia fatto a non pensarvi durante tutti questi anni e neppure so perché me ne sono ricordata adesso.
Mia nonna portava al collo un ciondolo, un ciondolo con la fotografia di suo marito. Mio nonno cioè. Un primo piano, in bianco e nero. E anche mia nonna era in bianco e nero, il bianco dei capelli, intrecciati pazientemente ogni mattina e il nero del lutto, segno di un dolore che non si vuol dimenticare.
Mio nonno era più grande di lei di ben dieci anni. Era ordinario allora: “Il maschio 28, la femmina 18” – diceva lei. Della loro storia non so praticamente nulla, perché non gliel’ho mai chiesto. Ero troppo piccola finché c’è stata. So che si volevano bene, me lo dice mia mamma, so che quando erano sposini mangiavano un chilo di pasta in due: “E non ingrassavamo mai” – aggiungeva sempre la nonna, con una punta di orgoglio e nostalgia. D’ingrassare non c’era il tempo: la guerra, il lavoro, lui in campagna, lei a casa con l’acqua da riempire alla fontana e un paese fatto a scale, da arrampicare. So che andavano a braccetto fino al seggio, poi lui votava il partito comunista e mia nonna la democrazia cristiana e di nuovo abbracciati verso casa.
Oggi, ripensare a quella foto che portava addosso ogni giorno e ogni notte per i ventanni della sua vita senza di lui, è un ricordo che mi stordisce. Il fatto è che, adesso, io le domande ce le avrei e forse sarei anche in grado di ascoltare le risposte, di capirle, intendo. E’ che l’amore, più di altre dimensioni di questa complessa cosa che è l’esistenza, diventa fortissimo quando viene raccontato, non quando viene visto, desiderato, cantato, celebrato, consacrato e neppure quando è detto, che fra dire e narrare c’è una bella differenza. Dell’amore si dicono molte cose, infatti. Dire l’amore è come cercare di centrare un bersaglio in movimento. Non per niente l’amore, tra tutti i verbi possibili, predilige il “fare”. Ma al racconto l’amore si piega, forse perchè la narrazione non esiste se non quando si passa attraverso la vita, in mezzo, magari temendo di non riuscire a venirne a capo.
L’amore.
L’amore, io l’ho visto, mi pare, ma non so se ci ho girato attorno o se mi ci son persa dentro: l’amore impossibilie, l’amore platonico, l’amore vicino ma assante, l’amore assoluto, di gran lunga l’esperienza peggiore. Ma l’amore da tenere al collo fino alla morte, forse non lo so cos’è e forse per questo mi sono ricordata del ciondolo della nonna e di quel primo piano in bianco e nero. Lo baciava al mattino, al risveglio, e la notte, prima di dormire. E adesso io vorrei tanto che mi raccontasse di lui, di quando lo salutava all’alba e di quando lo attendeva, al tramonto, della gioia della sera e di tanti quotidiani ritorni, dell’amore che c’è e che resta sempre perfino quando la morte si mette in mezzo.
Adesso che sento repulsione per ogni teoria, qualunque siano le sue argomentazioni e qualunque forma essa assuma, adesso l’amore lo vorrei così, frantumato, piccole schegge sparse ovunque: come lievito nel pane impastato a spinta di polsi, come residui di cenere ad imbiancar le lenzuola, come fili che tessono l’abito della festa, come parole nell’aria sull’uscio di casa sul far della sera. Mia nonna cantava sempre. Melodie di campagne innevate che le rendevano meno amaro, forse, il suo esilio in città. La morte del nonno è stata la fine di molte cose per lei. L’inizio di una vita in una città non sua, dove la figlia da amare e le nipoti da crescere sono diventate tutto il suo mondo. Ma lui stava lì, poggiato sul petto, sempre.
Oggi chi non ha qualcosa da dire sull’amore? L’amore non va idealizzato, l’innamoramento – attenzione – non è l’amore! L’amore non è tutto rosa è fiori, si sa. Mia nonna avrebbe crucciato lo sguardo davanti a tutti questi professionisti dell’amore, davanti ai dottori delle leggi che lo governano e definiscono. Forse avrebbe risposto che il nonno le voleva bene, che le portava rispetto. Troppo poco per le nostre consapevolezze moderne? Mi rendo conto, si.
Non è la nostalgia di un’età dell’oro, tra l’altro mai vissuta. E’ piuttosto la rivendicazione del diritto a non dimenticare, il diritto ad avere molta nostalgia delle persone amate e di non sottostare alla legge del chiodo schiaccia chiodo o dei portoni che si spalancano inghiottendo le porte chiuse. Vorrei avere un cuore dove le porte chiuse restano lì, chiuse ma presenti, magari con un bel rampicante fiorito che ci cresce addosso. Rivendico il diritto ad una nostalgia esagerata che cammina dritta dritta sullo stesso binario del presente, senza impedirmi di andare avanti e senza impedirmi di voltarmi ogni volta che vorrò farlo. Rivendico il diritto all’esistenza per il mio cuore tortuoso dove la vita non scorre fluida, lasciando a secco alcune zone e paludose molte altre. Rivendico davanti all’amore il diritto di coltivare la mia propensione alla solitudine senza sensi di colpa o frustrazioni. Rivendico il diritto di amare chi non mi ama o chi pur amandomi non vuole o non riesce a restare. Rivendico il diritto di sentirmi molto molto innamorata salvo poi scoprire che non era davvero così, senza disperazione. Rivendico davanti al buon senso il diritto di credere possibile quanto non lo è, sognando ad occhi aperti, il diritto di commuovermi al pensiero che quella persona lì esiste davvero, il diritto a morire d’amore per un fugace sfiorarsi di mani. Se è l’esperienza a suggerirmelo, rivendico il diritto di capovolgere ogni legge, voglio poter dire: innamorarmi è stato molto più difficile e doloroso che amarlo per tutta la vita al mattino quando lascia in disordine il bagno!
Una foto in bianco e nero sul petto silenzioso di una donna riemerge nella mia memoria come la possibilità di amare a modo mio. Forse non me ero dimenticata, forse aspettavo soltanto di capire cosa significasse per me.
Allo scoccare delle ultime ore
brucia la carne innocente.
Le orecchie invocano un canto:
“Cantate più forte o potenti
coprite di voci saudenti
il fumo di fragili ossa”.
La cerco piangendo tra i resti:
“Dove sei umana natura?”.
Ne trovo sgomenta i frammenti
seccato è il sangue fra i sassi.
Il buio viene da dentro
e muove nere bandiere,
nelle loro minacce risuona
il canto funesto di copiosi silenzi.
La luce vola leggera,
i passi si muovono lenti
pietà sola risveglia la vita
le tenebre si mutano in grembo.
Non so quanto io abbia il diritto di esultare per la liberazione di Kobane, dato che apprendo la notizia comodamente seduta sul divano di casa mia, eppure non voglio autoprivarmi della gioia che questa notizia porta con sé.
Kobane è diventata un simbolo di lotta per la libertà, forse perché a lottare contro il califfato delle tenebre è stata una minoranza etnica, forse perché le donne hanno avuto in questa battaglia un ruolo fondamentale, forse perché il web ci ha permesso di vivere la riconquista metro dopo metro.
La Siria è il fronte di tante guerre, un territorio sacrificato sull’altare di troppi idoli. L’unico paese, fra quelli coinvolti nelle primavere arabe, ad avere più di centomila morti e quasi tre milioni di profughi. Ma tante vittime non hanno ancora saziato la fame delle ragioni politico-economiche che tengono vergognosamente in piedi il regime di Bashar al-Assad. Il fallimento della politica estera internazionale ha generato il mostro Isis, contro il quale impieghiamo oggi tante forze e risorse. Piangiamo, giustamente, gli uccisi in terra d’occidente e sentiamo sul collo il fiato della minaccia jihadista.
Gli incubi dei nostri adolescenti sono popolati da bandiere nere lanciate alla conquista delle nostre sicurezze e le parole di conforto che rivolgiamo loro non rassicurano nessuno, neppure noi stessi: “Prof., non può capire quanto sto male per queste notizie di morte e di guerra! Sono delusa, ma non so bene da cosa. E’ che non mi sento protetta, non sono sicura di poter contare sullo Stato e sono, sopratutto, confusa. Sta succedendo qualcosa che è più grande di noi, qualcosa di grave, eppure mi pare che nessuno faccia nulla di veramente efficace per difendere la gente”.
Nei ragazzi sensazione e istinto sono ancora strumenti funzionanti, suonano, non stonano. Sono alleati preziosi nel faticoso tentativo d’interpretare la realtà. Con le loro feste per i diciotto anni tutte da organizzare, pieni di entusiasmo, paure e speranze, compiono il difficile passaggio che li condurrà fuori dalle mura. Adesso si rendono conto, si avvicina il tempo in cui ciò che si crede vero e giusto bisogna farlo, per averlo, non basta desiderarlo. Mi auguro che, un giorno, si ricorderanno delle ore passate a scuola studiando l’intricata vicenda siriana, le religioni e la storia dolorosa di una piccola città al confine con la Turchia, data per spacciata ma tornata alla libertà: “L’arco dei forti s’è spezzato, ma i deboli sono rivestiti di vigore”, canta così, nella Bibbia, una donna umiliata dai potenti e difesa da Dio (1Sam 1,49). Quel giorno, forse, potrò sentire di appartenere anch’io al vento che muove a festa le bandiere a colori sulle colline di Kobane.
gli anni verdi che sapevi
respirare l’aria delle cinque
e potevi dormire ovunque,
sapevi che tanto crescevano
i semi nel frattempo
anzi, solo se sognavi l’albero
trovavi la pianta al risveglio,
gli anni che in un solo anno
bruciavi tantissime vite
ma leggero perché sentivi
imminente la forma di tutto,
ora che si prolungano
e ti vogliono ancora a fare e
disfare te stesso per avere
in mano un presente
che somigli al frutto sognato,
sono gialli pesanti e muti
ceri di modesta fiamma
anche se li trucchi nelle storie
che racconti agli amici
parlando sotto un sole
che altri fanno prima dell’alba,
e basta un no a piegarti
e dormi poche ore al giorno
sapendo che niente cresce
di fianco al letto, niente
del verde e della luce provata
negli anni che si diceva.
Marco Bisanti
“Sfiorare” : preceduto da DIS, privativo.
Cogliere il fiore, il meglio di checchessia.
Perdere il più vago della bellezza, la parte migliore.
Toccare lievemente passando vicino.
Andare molto vicino al conseguimento di qualcosa, senza raggiungerlo.
Ciononostante inteso nel senso contrario: Sfiorare è anche raggiungere.
Il fiato si spezza sfinito,
oppresso da eccessiva lunghezza.
Corro con gambe veloci
e tu resti ad uguale distanza.
Di fronte e invisibile,
fantasma di felicità velata.
Gomito a gomito.
Ripeto a memoria, di notte in giorno
la rima baciata del tuo calore.
Resto,
a vegliarti le mani tra luna e sole,
piegata dal vento.
Canto le sillabe del tuo nome
e tu scopri sorpreso che esisti.
Ti svegli dal buio del sonno
le gambe che tremano vergini
si muovono vive di passi.
Palmo a palmo si svela l’amore,
t’abbraccio di fiato immortale.
T’amo con cuore di vento
tormento di foglie appese a rami d’inverno.
T’amo con amor di tempesta
che si abbatte violenta
e nera divora d’appuntiti morsi
l’ombra severa degli spettri.
T’amo con cuore di pioggia
che lenta disseta,
e vita segreta germoglia
sugli occhi, perle di rugiada
sangue caldo sui desideri morti.
T’amo con cuore d’argento
freddo e prezioso
che ricopre la silenziosa attesa
d’amare te a piedi nudi,
il coraggio ardito, la temeraria impresa.
T’amo con cuore di roccia
che frana, di sasso in sasso
sotto il peso grave del tuo silenzio.
T’amo con amor di luce
che le tenebre inghiotte
come grumo di lacrime in gola.
T’amo con amore di mosto
custodito dal buio in cuore di legno
che aspetta dell’uva nera il tramutarsi in festa.
T’amo con amor di coltello
che a cuore nudo la tua lama affonda.
T’amo con cuore di neve,
che della tua assenza mi ricopre, lieve.
T’amo con cuore d’inverno
di vita che fredda muore
e germoglia, insieme.
T’amo a viso scoperto
e sguardo teso,
che l’amor spavaldo
si mostra nudo, si mostra arreso.
T’amo d’amor di terra
che mano generosa di semi adombra.
T’amo con cuor d’attesa,
io parola muta e tu Gerico di pietra.
Fiorisca in corpo, nostro
coraggiosa resa,
un’eterna estate
di desiderio audace,
intreccio d’ossa
di vita illesa.